C’è una frase consolante di San Paolo ai cristiani di Roma: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza». La nostra debolezza è infinita com’è infinita la forza di Dio; anzi nel momento in cui riconosco la mia fragilità, è il momento in cui la potenza di Dio scorre nelle mie vene.
Il mese di maggio con i suoi colori e i suoi profumi ci porta agli anni dell’infanzia, quando sui prati, velati da un basso strato di nebbia, le lucciole stendevano un tappeto luminoso e noi ragazzi, dopo cena, eravamo chiamati a lodare Maria con la recita del rosario, la predica del prete e il fioretto da praticare il giorno successivo. Il sorriso della Vergine Maria riempiva il tramonto della giornata con una carezza di gioia e l’impegno a essere più buoni.
Nella mia esperienza di fede, come una salutare cicatrice, è inciso un episodio capitatomi a Gerusalemme, proprio nel sepolcro vuoto di Gesù. Era una fredda mattina di febbraio, le porte della basilica erano state aperte da pochi minuti. Non c’erano pellegrini, un silenzio tombale avvolgeva la grande basilica. Mi avviai verso il sepolcro, entrai e rimasi solo davanti a quella pietra che aveva assistito al singolare riscatto dell’amore sulla morte con la Risurrezione di Gesù.
Mentre pregavo, un’anziana signora s’inginocchiò accanto a me e, terminata la sua preghiera, con le dita, toccò la pietra e portò la mano sugli occhi. Il gesto era un augurio che i suoi occhi acquistassero una luce divina abilitata a vedere al di là delle apparenze terrene. Rapinare un frammento della luce della Risurrezione. Mi piace ricordare, a questo proposito, un detto del mondo ebraico in cui si paragona l’occhio al mondo: «Il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme la pupilla e l’immagine riflessa è il Tempio». Il tempio per i cristiani è Gesù risorto.
Da quel giorno il gesto di quella donna è entrato nella mia anima.
Caro e venerato San Giuseppe, sono passati cento anni da quando lo zelo apostolico di San Luigi Guanella ha dedicato uno spazio al culto della tua persona, amabile papà terreno di Gesù. Con la tua proverbiale umiltà ti sei messo a fianco dei preti e delle suore guanelliane affinché i fedeli trovassero nella basilica a te dedicata un compagno di viaggio nelle difficoltà della vita.
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Mi piace iniziare questo mese di febbraio immergendomi in un bagno di luce. La liturgia ci invita a entrare in questo avvolgente e consolante messaggio di luce. Dopo i quaranta giorni dalla nascita di Gesù, la Chiesa, sapiente madre e maestra di vita, ci invita a celebrare la Presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme come festa della luce; giorno di luce poiché festa di un dono. Giuseppe e Maria con animo grato, in ossequio alla legge antica, offrono al Padre di ogni vita, il primogenito, Gesù.
In quella circostanza, pur nel rigore della stagione invernale, il tempio si era illuminato. In quel primogenito c’era la luce; in quella vita offerta era racchiusa la luce del mondo. La saggezza popolare ha chiamato il 2 febbraio «la candelora», infatti, i ceri diventano un’offerta disponibile a farsi luce. Come una conchiglia aperta allo splendore della luce, la cera nel momento in cui si consuma si fa fiamma. Per il credente ogni istante, progetto, pensiero, sentimento, ogni preghiera vissuta in compagnia di Gesù si trasformano in sorgente di luce. Nella concretezza della nostra carne si realizza l’espressione del salmo: «Nella tua luce vediamo la luce».
Entriamo nel 2012 con le spalle cariche di pesi gravosi e preoccupazioni a vari livelli, ma su tutte la crisi economica con il suo grappolo di pesanti conseguenze. Per questo è necessario più che mai varcare la soglia del nuovo anno con un forte appello all’ottimismo. La fede è la sorgente dell’ottimismo e ha il suo fondamento nella parola rivelata, come ricorda San Paolo quando scrive: «Se Dio è con noi chi può essere contro di noi?». Allora varchiamo la soglia del nuovo anno con fiducia; la vita continua, si rinnova, ritrovando nuove motivazioni. Il mio proposito è di tentare di mettermi al fianco di Gesù e camminare nei sentieri del domani con la certezza di avere sempre un compagno di viaggio che non abbandona.