«Dio non turba mai la gioia dei suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande»: queste parole di Alessandro Manzoni ci aiutano a vivere la Commemorazione dei nostri fedeli defunti. Nei primi giorni di novembre la nostra tradizione cristiana ci sollecita alla visita dei cimiteri, ai campi della speranza. Il campo santo, come si diceva un giorno, è un recinto dove è possibile abbracciare un mondo di ricordi, rinnovare i nostri affetti e rinverdire quel quoziente di gioia che Dio ha nascosto anche nelle sofferte pieghe della morte dei nostri cari, perché lo sappiamo e lo professiamo con fede:
Caro San Giuseppe,
il mese di maggio l’antica tradizione l’ha dedicato alla tua dolce sposa Maria, ma il primo giorno è consacrato al tuo impegno di proteggere la fatica del lavoro umano. Vogliamo ritagliare un piccolo spazio da dedicare alla tua vita di onesto lavoratore invocato e benedetto come patrono e modello dei lavoratori, soprattutto per esprimere la nostra fiducia in te e per chiederti la perseveranza nella nostra vita di fede. Stiamo vivendo un momento assai drammatico nel mondo del lavoro.
La fede è gioia cantata con le note musicali della vita di chi crede. Papa Francesco, al termine dell’Anno della fede, ha consegnato alla Chiesa gli strumenti della gioia con l’Esortazione apostolica che inizia con queste parole: «La gioia dell’Evangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù». Chi si accosta a Gesù sente zampillare nell’anima questa gioia che si fa spazio nel vuoto interiore e cancella la tristezza di una vita senza illuminanti speranze.
«Nessuno m’impedisce di calcolare la processione degli equinozi o di disintegrare gli atomi. Ma a che cosa servirà fabbricare la vita, se si è perduto il senso stesso della vita?». La frase è di George Bernanos ed è sempre di estrema attualità.
Abbiamo iniziato con «L’Anno della fede» un cammino alla ricerca della nostra identità di credenti. Il fiume della vita di fede parte dalla sorgente del battesimo per giungere senza interruzioni alla foce del nostro esistere e sfociare nella vita eterna.
Il vivere alla ricerca di senso è l’anelito di ogni persona; dai valori coltivati scaturisce, infatti, l’orientamento da imprimere al proprio essere presenti nella storia. Da sempre, il cielo, chiuso nella stanza dell’anima, reclama responsabilità concrete e spazi infiniti. Diceva Dietrich Bonhoeffer che le cose penultime acquistano significato delle cose ultime: è l’eternità che dà senso al tempo. L’aspettativa del «dopo» è l’interrogativo di tutti.
Questo interrogativo è stato al vertice della preoccupazione anche per gli apostoli e si è fatto più acuto al momento del commiato di Gesù da loro.
Stagione di ferie, ma anche tempo di preoccupazioni e tremore per un futuro poco avvincente. Abbiamo alle spalle il grande incontro delle famiglie a Milano. è stato un laboratorio programmatico per un avvenire in cui riportare al centro del vivere i legami familiari, un lavoro garantito e la voglia di godere la gioia della festa.
Stiamo vivendo un momento di cambiamenti storici, tuttavia la crisi di tante sicurezze di ieri non può paralizzarci, ma deve diventare uno stimolo a mettere insieme le risorse più genuine.
Alla vigilia della festa della Pentecoste il presidente dei Vescovi italiani, il cardinal Angelo Bagnasco, ha invitato i cristiani a rispondere a questa crisi storica con «un cambiamento altrettanto epocale che investa modelli di pensiero e stile di vita».
Caro e venerato San Giuseppe, sono passati cento anni da quando lo zelo apostolico di San Luigi Guanella ha dedicato uno spazio al culto della tua persona, amabile papà terreno di Gesù. Con la tua proverbiale umiltà ti sei messo a fianco dei preti e delle suore guanelliane affinché i fedeli trovassero nella basilica a te dedicata un compagno di viaggio nelle difficoltà della vita.
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Mi piace iniziare questo mese di febbraio immergendomi in un bagno di luce. La liturgia ci invita a entrare in questo avvolgente e consolante messaggio di luce. Dopo i quaranta giorni dalla nascita di Gesù, la Chiesa, sapiente madre e maestra di vita, ci invita a celebrare la Presentazione di Gesù al tempio di Gerusalemme come festa della luce; giorno di luce poiché festa di un dono. Giuseppe e Maria con animo grato, in ossequio alla legge antica, offrono al Padre di ogni vita, il primogenito, Gesù.
In quella circostanza, pur nel rigore della stagione invernale, il tempio si era illuminato. In quel primogenito c’era la luce; in quella vita offerta era racchiusa la luce del mondo. La saggezza popolare ha chiamato il 2 febbraio «la candelora», infatti, i ceri diventano un’offerta disponibile a farsi luce. Come una conchiglia aperta allo splendore della luce, la cera nel momento in cui si consuma si fa fiamma. Per il credente ogni istante, progetto, pensiero, sentimento, ogni preghiera vissuta in compagnia di Gesù si trasformano in sorgente di luce. Nella concretezza della nostra carne si realizza l’espressione del salmo: «Nella tua luce vediamo la luce».
Entriamo nel 2012 con le spalle cariche di pesi gravosi e preoccupazioni a vari livelli, ma su tutte la crisi economica con il suo grappolo di pesanti conseguenze. Per questo è necessario più che mai varcare la soglia del nuovo anno con un forte appello all’ottimismo. La fede è la sorgente dell’ottimismo e ha il suo fondamento nella parola rivelata, come ricorda San Paolo quando scrive: «Se Dio è con noi chi può essere contro di noi?». Allora varchiamo la soglia del nuovo anno con fiducia; la vita continua, si rinnova, ritrovando nuove motivazioni. Il mio proposito è di tentare di mettermi al fianco di Gesù e camminare nei sentieri del domani con la certezza di avere sempre un compagno di viaggio che non abbandona.
Nella mia esperienza di fede, come una salutare cicatrice, è inciso un episodio capitatomi a Gerusalemme, proprio nel sepolcro vuoto di Gesù. Era una fredda mattina di febbraio, le porte della basilica erano state aperte da pochi minuti. Non c’erano pellegrini, un silenzio tombale avvolgeva la grande basilica. Mi avviai verso il sepolcro, entrai e rimasi solo davanti a quella pietra che aveva assistito al singolare riscatto dell’amore sulla morte con la Risurrezione di Gesù.
Mentre pregavo, un’anziana signora s’inginocchiò accanto a me e, terminata la sua preghiera, con le dita, toccò la pietra e portò la mano sugli occhi. Il gesto era un augurio che i suoi occhi acquistassero una luce divina abilitata a vedere al di là delle apparenze terrene. Rapinare un frammento della luce della Risurrezione. Mi piace ricordare, a questo proposito, un detto del mondo ebraico in cui si paragona l’occhio al mondo: «Il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme la pupilla e l’immagine riflessa è il Tempio». Il tempio per i cristiani è Gesù risorto.
Da quel giorno il gesto di quella donna è entrato nella mia anima.
C’è una frase consolante di San Paolo ai cristiani di Roma: «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza». La nostra debolezza è infinita com’è infinita la forza di Dio; anzi nel momento in cui riconosco la mia fragilità, è il momento in cui la potenza di Dio scorre nelle mie vene.
Il mese di maggio con i suoi colori e i suoi profumi ci porta agli anni dell’infanzia, quando sui prati, velati da un basso strato di nebbia, le lucciole stendevano un tappeto luminoso e noi ragazzi, dopo cena, eravamo chiamati a lodare Maria con la recita del rosario, la predica del prete e il fioretto da praticare il giorno successivo. Il sorriso della Vergine Maria riempiva il tramonto della giornata con una carezza di gioia e l’impegno a essere più buoni.
Sembra che la peste nera della nostra epoca sia l’indifferenza. Anche le nobili passioni hanno il fiato corto. Il dinamismo dei grandi valori di ieri sembra paralizzato.
Il mese di giugno sventaglia il suo ottimismo e con la mietitura e i numerosi frutti della terra ci propone di contemplare la natura nel suo massimo splendore ci permette di abbracciare l’Infinito di Dio. Il sapore agricolo delle parabole dell’evangelo ci dice che “il seminatore si fa seme, il vignaiolo si fa vite, il vasaio argilla, il Creatore creatura”. Non solo Dio cammina con noi, ma Dio si fa uno di noi. “Un amore divino nell’uomo e un amore umano in Dio”.
La fede si gioca la sua scommessa in questo campo in cui ci accorgiamo non tanto che noi amiamo Dio, ma che è Dio ad amarci per primo: “Dio ha tanto amato gli uomini sa mandare a noi il suo figlio Gesù”.
Siamo alla vigilia di un grande giubileo che la Chiesa si prepara a vivere con impegno e generosità. Il desiderio di Benedetto XVI è di far entrare con consapevolezza i credenti nel cuore stesso della Chiesa attraversando la «Porta della Fede».
Forse sono o siamo in tanti a stare sulla soglia di questa porta a guardare cosa succede, senza la voglia di partecipare a costruire il futuro con un’illuminazione dall’Alto.
Il Papa ha indetto quest’anno della fede nel Cinquantesimo anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II. Quell’11 ottobre 1962 Papa Giovanni XXIII ha fatto salpare la navicella della Chiesa per una navigazione in alto mare. In quell’assemblea planetaria, i padri conciliari hanno avuto modo di esaminare «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini» nel desiderio di aiutare i cristiani a dare risposte evangeliche alle problematiche moderne. Fu una stagione primaverile. La Chiesa universale visse un momento di forti vibrazioni spirituali con una speranza di un futuro migliore.