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Monday, 07 April 2014 12:46

Annalena Tonelli: una missionaria al servizio di Cristo Sofferente

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«Sono una cristiana con fede rocciosa, incrollabile... per grazia di Dio»

di Gabriele Cantaluppi

Nata a Forlì il 2 aprile 1943, fin da quando aveva cinque anni sentì l’ispirazione a dedicare la vita ai poveri. Un intuito che maturò negli anni di liceo, anche quando, grazie ai brillanti risultati scolastici, trascorse un periodo a Boston per imparare l’inglese.
E fu proprio nel quartiere nero di quella città, a contatto con quelli che soffrono, che non hanno voce davanti al mondo, che la sua vocazione si fece chiara. I suoi genitori desideravano per lei la carriera  giudiziaria e, per accontentarli, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Ma per non perdere tempo si impegna con tutte le forze nel Comitato per la lotta contro la fame del mondo, sorto in quegli anni nella sua città, e accetta la carica di presidente della sezione femminile della FUCI.
Numerose sono le sue iniziative a favore dei poveri: conferenze, dibattiti pubblici, che la mettono in contatto anche con Raoul Follerau, l’apostolo dei lebbrosi, e l’abbé Pierre, il fondatore della comunità Emmaus. Ha come punti di riferimento Gandhi, che legge assiduamente, ma anche altre guide cristiane, dai padri del deserto, a Francesco e Chiara di Assisi e altri, fino a quelli più vicino a noi come Primo Mazzolari e Lorenzo Milani.
Dopo la laurea nel 1969, non riuscendo a raggiungere l’India, come desidererebbe, approda in Kenya, come insegnante di inglese nelle scuole dei missionari della Consolata.
Ai suoi occhi il Kenya si presenta non come luogo turistico, ma come un paese pieno di miseria. Scrive al fratello Bruno: «Mi dispiace che dalle mie lettere tu ricavi l’impressione che qui l’ambiente sia poetico… Qui non c’è nessuna poesia, nessunissima, se tu ti vuoi impegnare fino in fondo a calarti in mezzo a questa gente». è l’inizio della “via del deserto”, così definisce l’itinerario che la condurrà a realizzare in pieno la sua vocazione. Così la definirà lei: «Volevo seguire solo Gesù Cristo. Null’altro mi interessava così fortemente: Lui e i poveri in Lui. Per Lui feci una scelta di povertà radicale, anche se povera come un vero povero, i poveri di cui è piena ogni mia giornata, io non potrò essere mai». Tanto che potrà testimoniare: «Qui in Africa si può venire anche solo per gli uomini, ma qui in Africa si rimane solo per Dio. Se non c’è Dio si scappa a gambe levate finché si è ancora in tempo o qui si muore nel senso più vero della parola». Perciò potrà confessare: «Sono non sposata perché così scelsi nella gioia quando ero giovane. Volevo essere tutta per Dio».
Dopo alcuni spostamenti, si stabilisce a Wajir, come insegnante di inglese nella scuola governativa. Ma presto apre un centro di riabilitazione per bimbi poliomielitici, ciechi, sordi e epilettici. Da Forlì giungono aiuti materiali, ma soprattutto alcune amiche, così da formare una comunità di sette donne «in misura e maniera diversa assetate di Dio». Difficoltà non ne mancano, ma «quando capivamo che stavamo per perdere il senso del nostro servizio e la capacità di amare, ci ritiravamo in un eremo, per uno o più giorni di silenzio, ai piedi di Dio. Là ritrovavamo equilibrio, saggezza, speranza e forza per combattere la battaglia di ogni giorno, prima di tutto con ciò che ci tiene schiavi dentro, che ci tiene nel buio».
Cominciano anche le difficoltà esterne per lei, cattolica che opera in un ambiente musulmano che non l’accetta. Viene aggredita e ferita, ma quando esce dall’ospedale riprende con maggiore grinta la sua opera, specialmente verso i bambini, nel pieno rispetto della loro fede: anzi li segue e li mantiene negli studi anche quando lasciano il suo Centro.
E compie un altro passo: curare i malati di tubercolosi, che scopre “ultimi” nei letti dell’ospedale locale. Ottenuta con un corso intensivo in Italia la specializzazione in malattie polmonari, rientra in Kenya e ottiene dal Governo l’incarico di dirigere un progetto pilota dell’OMS per la cura della tbc a Wajir. Per convincere gli ammalati, nomadi, a completare la cura, fonda un villaggio con oltre 300 capanne, dove lei stessa provvede a tutto: dall’accoglienza alle terapie, dal cibo alla gestione economica.
Purtroppo in Kenya  la situazione si aggrava: attriti fra clan e rappresaglie portano al massacro di Wagalla, un aeroporto dismesso, dove più di seimila uomini vengono rinchiusi, torturati, uccisi e abbandonati nel deserto. Annalena li raccoglie e li seppellisce, nonostante le minacce e le bastonate della stessa polizia. Viene perfino deferita davanti alla Corte marziale, che la espelle come persona indesiderata.
Scriverà al vescovo Leo White: «“L’operazione”, come la chiamano loro, è stata condotta da cristiani… Questo è il mio tormento».
Eppure il buon seme non soffoca. Racconta lei stessa: «Un vecchio arabo mi fermò perché in mezzo ai morti c’erano suoi amici. Aveva visto quando mi picchiavano perché sorpresa a seppellire i morti, mentre lui non aveva fatto nulla per salvare i suoi. Io invece avevo osato e rischiato per salvare quei poveretti, che erano diventati miei, e gridò perché voleva essere sentito da tutti».
Invitata a Belet Waine, a circa trecento chilometri a nord di Mogadiscio, per collaborare a un progetto per la cura della tubercolosi, accetta per stare vicino ai “suoi” africani. è duro per lei, abituata a lavorare come battitore libero, fuori dalle organizzazioni e in massima povertà. Riesce però a trasfigurare quel vecchio sanatorio in rovina, che aveva solo dieci letti, fino a metterlo in grado di accogliere duecento ricoverati e ammodernandolo nelle strutture. E tutto questo in un clima di guerra, fino a quando nel dicembre 1991 il dittatore Siad Barre viene cacciato. 
A Merka, una cittadina sulla costa, riattiva un porto in disuso per far giungere gli aiuti umanitari, che però sono pesantemente controllati dai trafficanti d’armi. Riesce però, sempre con l’aiuto di amici italiani e di Mana, figlia di un sultano locale, a trasformare una casetta rabberciata, dove cura bambini e malati, in un Centro con poliambulatorio, fino a sfamare tremila persone al giorno, facendo a volte lei stessa da cuoca. Scriverà: «Arrivano da tutta la Somalia, scheletriti occhi atterriti per le violenze viste o subite. Sono testimone ogni giorno di uno dei più grandi misteri di iniquità della mia vita. Vedo padri e madri felici di veder morire i loro figli perché è un peso insopportabile». 
La Tbc è per quei popoli anche una vergogna e per questo si lasciano morire piuttosto che ammettere di avere quella malattia. Occorre perciò vincere paura e ignoranza e per questo a Brama, ancora in Somalia, apre una scuola per aprire quelle menti alla luce della speranza. 
Affermerà che il dono più bello che ha ricevuto dai nomadi del deserto è quello della fede: “Bismillahi Rahmani Rhim”, nel nome di Dio Onnipotente e Misericordioso. è l’invocazione con cui le hanno insegnato a fare tutto, a incominciare tutto e a operare tutto.
Anche per bambini ciechi e sordi apre dei centri dove vengono curati e in molti casi restituiti a una vita normale. Anche gli ammalati di AIDS sono oggetto delle sue cure, non solo  per guarire il flagello, ma anche nell’opera di prevenzione attraverso l’educazione.
La forza della sua azione la troviamo forse dichiarata da lei stessa: «La vita è sperare sempre. Sperare contro ogni speranza, buttarsi alle spalle le nostre miserie, non guardare alle miserie degli altri, credere che Dio c’è e che Lui è un Dio d’amore». In una cartolina a un amico ricopierà questa frase di S. Teresa di Lisieux: «Io sono d’una natura che col timore indietreggia, con l’amore non solo avanza, ma vola». 
Confesserà: «Io sono nobody. Nessuno. Nel senso che non appartengo a nessuna organizzazione religiosa». E aggiungerà che la prova più dura per lei non sono tanto le fatiche fisiche, quanto «non avere qualcuno con cui condividere la mia fede rocciosa».
Nel 2003 è a Forlì e in un incontro con la cittadinanza insegna uno stratagemma per farle arrivare il denaro: nascondere i soldi dentro un plico di lettere recapitate dalla Croce Rossa.
Aveva lasciato scritto un’aspirazione: «Potessi io vivere e morire d’amore. Mi sarà dato?». E in risposta arriva la sera del 5 settembre 2003. Mentre fa il giro consueto fra gli ammalati, un colpo di pistola la raggiunge al capo. Non muore subito e si tenta di salvarla con ogni mezzo. Medici, infermieri e tanta gente vuole donare il sangue, ma ogni tentativo è inutile.
Non si saprà mai l’identità dei mandanti, ma tante volte Annalena aveva denunciato leader militari e dei clan, gestori di traffici di armi e droga, ricevendo minacce anche da ambienti fondamentalisti.
«Ho sperimentato più volte, nel corso della mia ormai lunga esistenza, che non c’è male che non venga portato alla luce, non c’è verità che non venga svelata. Un giorno il bene risplenderà. A Dio chiediamo la forza di sapere attendere, perché può trattarsi di lunga attesa. Anche fino dopo la nostra morte. Io vivo nell’attesa di Dio».
Il suo programma di vita è ben chiarito in una lettera alla mamma: «Sono pienamente consapevole… che il Signore è qui con noi, che Lui ci ama pazzamente… e che pretende che ci facciamo santi… col poco o col molto di cui siamo dotati».
 
 
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