San Giuseppe Vaz, missionario cattolico nello
Sri Lanka, ricostruì quanto era stato distrutto dai calvinisti. Sua forza era la fede,
suo rifugio la Madonna
e san Giuseppe
di Corrado Vari
Primo santo nato in India, sacerdote, fondatore della Congregazione dell’Oratorio in Asia, missionario instancabile e restauratore della Chiesa cattolica a Ceylon – oggi Sri Lanka – dopo che i calvinisti olandesi avevano fatto di tutto per annientarne la presenza. «Il più grande missionario cristiano che l’Asia abbia mai avuto», lo definì san Giovanni Paolo II nell’omelia per la sua beatificazione, nel 1995.
Questa in poche parole la figura di Giuseppe Vaz, che ricordiamo il 16 gennaio, canonizzato da papa Francesco nel 2015 anche senza un miracolo, proprio per l’imponenza della sua azione evangelizzatrice, un’opera in cui ancora oggi la Chiesa di quella terra affonda le proprie radici. «La vita del padre Vaz è un miracolo», lasciò scritto un suo confratello.
Giuseppe Vaz nacque il 21 aprile 1651 a Benaulim, nel territorio di Goa, fiorente colonia portoghese sulla costa occidentale dell’India, da una famiglia di bramini (la casta sacerdotale della società induista), ma cristiana già da generazioni. Fu battezzato nella chiesa del villaggio, a poca distanza dalla cappella che ricorda il passaggio, novant’ anni prima, di san Francesco Saverio.
Amante della preghiera, fin da bambino mostrò i segni della vocazione al sacerdozio, per il quale si preparò presso i Gesuiti e i Domenicani. Ordinato nel 1676, svolgeva con zelo e grande preparazione i compiti che gli venivano affidati. Cresceva intanto la sua devozione alla Vergine Maria e il 5 agosto 1677 egli le consacrò la sua vita con uno scritto in cui dichiarava: «Mi vendo e mi offro come schiavo perpetuo della Vergine Madre di Dio, affinché lei, come mia vera Padrona e Madre, possa disporre di me e dei miei beni come desidera. E poiché mi considero indegno di un tale onore, imploro il mio angelo custode e il glorioso patriarca san Giuseppe, il beatissimo sposo di questa sovrana Signora e il santo di cui porto il nome, così come tutti i cittadini del cielo, che possano ottenermi da lei questo favore di essere incluso nel numero dei suoi schiavi».
Giuseppe iniziò anche a conoscere la dolorosa situazione dei cattolici in quella che i portoghesi chiamavano Ceilão (da cui l’inglese Ceylon), la grande isola a sudest dell’India estesa quasi quanto l’Irlanda, dove gli inizi del cristianesimo si fanno risalire alla predicazione dell’apostolo Tommaso. Qui gli olandesi, protestanti di fede calvinista, poco dopo la nascita di Giuseppe avevano preso il controllo di gran parte del territorio, scacciando i portoghesi e perseguitando duramente i cattolici; preti e religiosi furono espulsi e venne decretata la pena di morte per quelli che tentassero di rientrare, mentre i fedeli cattolici che non passavano al calvinismo erano costretti a tenere nascosta la loro fede.
Giuseppe cominciò allora a sentire una nuova chiamata, provando una misteriosa attrazione verso quei fratelli perseguitati; ci vollero però altri dieci anni prima che egli potesse rispondere. Intanto, pur continuando a svolgere con totale dedizione gli incarichi che riceveva, nacque in lui anche il desiderio di entrare in un ordine religioso, ma quelli esistenti a Goa non accoglievano membri del clero indigeno. Così nel 1685 si unì ad alcuni sacerdoti indiani che avevano iniziato a condurre vita comune e che presto lo elessero loro superiore. L’anno seguente essi presero contatto in Portogallo con i sacerdoti di san Filippo Neri e diedero quindi origine alla Congregazione dell’Oratorio in terra indiana.
Avviata la nuova comunità, benedetta da buoni frutti e numerose vocazioni, arrivò per Giuseppe il momento di dedicarsi alla missione che continuava ad attrarlo. Lo fece applicando alla lettera l’atto di consacrazione alla Madonna di tanti anni prima: infatti, per entrare in Sri Lanka depose le sue vesti di sacerdote, rivestendosi con l’abito degli schiavi e dei mendicanti. Dopo un lungo viaggio, nella primavera del 1687 approdò nell’isola in compagnia di João, giovane servitore che restò con lui come un figlio fino alla fine.
Padre Vaz iniziò la sua missione clandestina bussando alle porte delle case per chiedere l’elemosina insieme a João e portando al collo come segno una corona del rosario. Con discrezione, cercava così di entrare in contatto con i cristiani, celando sotto gli abiti l’indispensabile per celebrare la Messa. Scoprì e conobbe quindi i primi fedeli cattolici ed avviò un’incredibile storia di missione e di carità, che è stata definita «l’epopea di un uomo libero che si fa schiavo per evangelizzare»: trascorse ventiquattro anni di fatiche in tutta l’isola, in mezzo a persecuzioni, sofferenze, sacrifici (e miracoli). Giuseppe visse sempre in grande povertà, confidando unicamente nella Provvidenza di Dio, nella protezione della sua «padrona» Maria e nella paterna intercessione del suo patrono san Giuseppe.
Umanamente parlando, una storia più che avventurosa, che non è possibile raccontare in poche righe; la storia di una “scintilla” che accese l’enorme “fuoco” di una Chiesa rinata, con 75.000 fedeli, numerose chiese e circa 200 cappelle, una lunga schiera di catechisti e, infine, una comunità di missionari oratoriani, di cui faceva parte anche un nipote di Giuseppe. A lui, in una lettera, lo zio dava come raccomandazione principale quella di essere come «un bambino piccolo in ogni cosa e il più piccolo di tutti», perché sia evidente che è il Signore che opera. E poco prima della sua morte – avvenuta il 16 gennaio 1711 – ai suoi compagni che gli chiedevano un messaggio da portare nel cuore, Giuseppe disse: «Ricordate che non si può fare facilmente al momento della morte ciò che si è trascurato di fare per tutta la vita».