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Era parroco di Courmayeur (Aosta) e
fu protagonista di un atto semplice ma eroico. Ospitò un piccolo ebreo, Giulio Segre, per oltre un anno sotto le mentite spoglie di "nipote del prete" e lo salvò dalla deportazione. La memoria di questo fatto è ora raccolta in un libro.

di Lucio Brunelli

«In ricordo di don Cirillo Perron. Parroco e alpinista. Nominato "Giusto fra le Nazioni" per aver salvato la vita di un bambino ebreo, Giulio Segre, che abitò con lui».

Poche, sobrie parole scolpite nella lapide affissa il 16 luglio 2015 a Valtournenche, in Valle d’Aosta. Con un atto eroico di carità don Cirillo Perron, durante la Seconda Guerra mondiale, si prese cura del bambino, accogliendo l’implorazione disperata dei genitori di Giulio, braccati dalla polizia nazista. Lo fece passare come suo nipote. A tenere il discorso commemorativo è stato chiamato il vero nipote di don Cirillo, anche lui parroco e alpinista, anche lui nativo di questo paesino ai piedi del Cervino, ma trasferito da oltre 50 anni a Roma: don Donato Perron. Questi era diventato grande amico di Giulio Segre e gli stette vicino fino sulla sua morte nel 2015. Fu proprio don Donato a farmi conoscere il finto nipotino di suo zio, che ci raccontò la sua incredibile storia.

Era il 3 dicembre 1943. A Cormaiore, (così il fascismo aveva “italianizzato” Courmayeur) c’era la neve. E il fumo della stufa di don Perron saliva con lente volute verso i monti. La famiglia del piccolo Giulio, 7 anni, era riuscita grazie ad una soffiata a sfuggire all’ordine di arresto, emesso il giorno precedente nei confronti di tutti gli ebrei di Saluzzo. «All’alba preparammo la valigia e prendemmo la corriera verso Courmayeur, nella speranza ingenua di raggiungere la Svizzera neutrale», raccontava Giulio. Papà Vittorio e mamma Eugenia avevano confidato nell’aiuto di un passeur, ma le speranze di una fuga in Svizzera si erano infrante al confine contro un muro di neve. Così Vittorio Segre, non sapendo a chi altro rivolgersi, bussò alla porta del parroco di Courmayeur. Ospitare un ebreo, nasconderlo nella propria casa, era un reato punibile con la morte. E la ricompensa di 5.000 lire per chiunque denunciasse i fuggitivi poteva fare gola a molti. «Invece don Cirillo ci aprì le porte»,  ricordava Giulio. E li ascoltò. Vittorio e Eugenia dissero che loro avrebbero cercato riparo da qualche parte ma Giulio no, non potevano rischiare di portarlo con loro, era troppo piccolo e la fuga troppo pericolosa… «A don Cirillo – raccontava Giulio – venne l’idea di farmi passare per un suo nipote convalescente a cui i medici avevano consigliato l’aria di montagna». Così i genitori del bambino con le lacrime agli occhi lasciarono Courmayeur e Giulio rimase solo, nella canonica, con “zio” Cirillo. 

Immaginate il suo stato d’animo! Dovette imparare in fretta le preghiere cattoliche, perché nulla doveva tradire la sua vera identità. Lo fece con spirito diligente, ma a volte, quando si esercitava da solo, nel suo giaciglio, prima di addormentarsi, confondeva lo Shemà Israel che gli aveva insegnato papà Vittorio con le invocazioni del Padre nostro. Don Cirillo vegliava sul suo nuovo “nipotino”, a cui era stato cambiato il cognome. Il momento più difficile fu quando un ufficiale tedesco mostrò affetto e simpatia per il piccolo parente del parroco. Si trattava di sentimenti assolutamente puliti. Un giorno chiese a don Cirillo di essere invitato a casa e di poter conoscere meglio il bambino. C’era un motivo molto drammatico alla base del comportamento del militare: aveva perso un figlio a causa dei bombardamenti alleati, un bambino con i capelli biondi e gli occhi azzurri, proprio come Giulio. «Don Cirillo era combattuto ed inquieto; da una parte sentiva pietà per il tedesco, dall’altra temeva che scoprisse la verità e non poteva sapere come avrebbe reagito». La recita non ammetteva errori. 

Numerosi furono gli aneddoti che Giulio mi raccontò in una lunga intervista trasmessa da Tg2 Storie nel 2013 e molti di più sono raccontati nel libro Don Cirillo e il nipotino, che scrisse con l’intento di lasciare memoria della sua storia ai figli dei suoi figli. 

A sollevare il morale del bambino furono dopo alcuni mesi le buone notizie che gli giunsero dai genitori. Papà Vittorio aveva trovato un buon nascondiglio a Milano e ogni tanto inviava a don Cirillo una cartolina firmata solo con il nome e senza mittente. Mamma Eugenia invece non sopportava la lontananza dal figlio ed era riuscita ad avvicinarsi stabilendosi a Dolonne, una frazione di Courmayeur. Così aveva la possibilità di vedere almeno da lontano il suo Giulio, cosa che già le riempiva il cuore di gioia. 

Nel 2009 Giulio volle visitare la frazione dove era stata alloggiata la mamma. Una ragazzina tutti i giorni aveva portato il latte a sua madre e lei ne aveva parlato con tanto affetto e gratitudine. Giulio riuscì a rintracciarla. «Le dissi che volevo svelarle un segreto: ero ebreo, non ero il vero nipote di don Cirillo, mia madre non poteva confidare a nessuno questa verità. La donna rispose che in realtà loro sapevano, avevano capito, ma la gente di montagna è così, non parla e quando può aiuta».

Negli ultimi anni Giulio era diventato molto amico di don Donato e anche di don Maurizio Ventura, appassionato educatore di giovani a Roma. Con entrambi ebbe un intenso scambio epistolare, che è stato pubblicato. Benché stanchissimo e sofferente per la malattia, il 27 maggio 2015 si recò a Courmayeur per la cerimonia di consegna della medaglia di “Giusto fra le Nazioni” a don Cirillo. Essendo il sacerdote scomparso nel 1996, la massima onorificenza ebraica fu consegnata nelle mani di don Donato. Giulio era contento. Poche settimane dopo, l’8 luglio, morì col cuore in pace.

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