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Intervista con Pia Luciani,
nipote di Giovanni Paolo I

di Francesco Marruncheddu

Come avete accolto, come famiglia, la notizia della beatificazione di vostro zio, Albino Luciani, papa Giovanni Paolo I ?

Sapevamo da sempre che sarebbe arrivata, che prima o dopo sarebbe accaduto. L’abbiamo accolta con gioia e anche con molta normalità. Ringraziamo il Signore per questo dono: non a tutti è dato di avere uno zio beato! Conosco famiglie che hanno un santo tra i loro parenti, ma non è una cosa abituale o alla quale ci si abitua… . Per noi era “beato” ugualmente già prima, lo consideravamo già santo, ma ora è la Chiesa che lo riconosce ufficialmente. Ma valeva la pena toglierlo dall’oscurità e metterlo come una candela sul candelabro…

Quale è secondo lei il tratto più significativo del cammino di santità di suo zio?

Lui voleva veramente bene al Signore, cercava di imitarlo nel suo ministero, prima di sacerdote e poi di vescovo, usando la carità nei confronti del prossimo, andando incontro a chi aveva bisogno, facendo una vita molto modesta, senza lussi o cose in più, con un atteggiamento sempre aperto all’altro, e facendo al meglio quello che doveva fare. Andava davvero incontro alle persone e cercava di aiutare chiunque ne avesse bisogno in ogni modo.

Come reagì la vostra famiglia, in quel lontano 1978, alla notizia dell’elezione al soglio petrino di zio Albino?

Come ho detto in tante occasioni, fu un misto di gioia e di dispiacere. Gioia perché era una persona che lo meritava, pur senza mai averlo cercato in nessun modo: del resto, in tutta la sua vita, non ha mai cercato gloria né onorificenze. Allo stesso tempo, come diceva mio padre, ci fu anche sofferenza, perché si allontanava un bel po’ di più da noi. Noi eravamo molto legati a lui; per me era un secondo padre, anche se era soltanto lo zio. Il fatto dunque che con l’elezione a papa si allontanasse ancora di più da casa, da una parte chiaramente era una gioia e un onore per la famiglia, dall’altra il dispiacere per averlo più lontano. 

Lei frequentava suo zio?

Io ero molto legata a lui; come ho detto era come un secondo padre per me,  e quando era patriarca andavo spesso a trovarlo a Venezia, che certamente era più vicina a casa, e là era più facile trovarlo, poterlo incontrare.

Un suo ricordo dello zio ormai diventato Pontefice?

Andai a trovarlo pochi giorni dopo l’elezione. Io ho studiato alla LUMSA, che ogni anno organizzava a Roma dei corsi di aggiornamento per insegnanti, e io ero docente di Lettere alla Scuola Media. Visto che quell’anno ormai zio Albino stava a Roma, in occasione del corso annuale di settembre, ne approfittai per passare a trovarlo. Glielo avevo fatto sapere e lui mi disse: «Pia, sai che non ho molto tempo, ma se non ti dispiace sarei contento che tu ti fermassi a pranzo qua da me». Così, alla fine del corso, prima di rientrare a casa, sono passata da lui in Vaticano e abbiamo pranzato insieme nel suo appartamento nel Palazzo Apostolico.

A parte la celebrazione dell’inizio del ministero petrino, era la prima volta che lei lo incontrava da Pontefice?

Sì, ed è stata anche l’ultima volta che ci siamo visti e che abbiamo avuto modo di parlare familiarmente.

Come lo trovò in quella occasione? Era sereno?

Sì, lui si era già organizzato, e aveva già programmato il suo pontificato. Era una persona molto diligente, anche un po’ “terribile”, diciamo, perché non so come facesse. Subito era riuscito a riorganizzare  la sua vita e la sua giornata da papa. 

Poi un’altra sorpresa, questa volta drammatica: la sua morte improvvisa.

è stato un dispiacere immenso, uno shock… Già c’era stato recentemente il dolore per la maggiore lontananza, poi arrivò questa dolorosissima notizia. Quando suor Vincenza (una delle suore in servizio nell’appartamento papale, che gli faceva da infermiera e che trovò Luciani morto, ndr) me ne ha parlato, mi disse: «L’ho trovato là, nel letto, con i fogli in mano, sorridente, come se stesse ancora leggendo….». 

Era spiritoso, amava fare battute…

Era una persona molto gradevole. Aveva un modo di fare spiccatamente umoristico: anche quando eravamo tristi o avevamo qualche dispiacere, lui cercava sempre la battuta per rianimarci, per consolarci, per incoraggiarci. Aveva sempre quel senso dell’umorismo che gli permetteva di avvicinare la gente e di rendere gradevole il discorso e l’incontro con lui. 

E riusciva a farsi capire anche dai più umili e dai più semplici...

Sì, era il suo desiderio, la sua finalità, la sua caratteristica, e si era impegnato in questo. Mi ricordo che alcune volte, quando andavo a trovare lo zio a Venezia, mi sedevo nel suo studio e gli chiedevo cosa stesse facendo. «Sto preparando una predica, anzi l’ho appena finita. Leggila, così mi dici se si capisce!». 

Voleva confrontarsi e avere il mio parere, così come ad esempio quello delle suore che prestavano servizio in casa. Ricordo che si sedeva con loro e diceva: «Suora, posso leggerle questa mia omelia?». «Sì, Eminenza, legga pure». 

E lo zio leggeva. «Bellissimo, tutto bellissimo, Eminenza!»,  commentavano le suore alla lettura, e  lui rivolto a me sottolineava: «Sì, per loro è tutto bellissimo, anche se magari non lo è,  perché mi vogliono bene! A sentir loro tutto quello che faccio va bene! Ma chissà se è proprio così, spero sia comprensibile!».