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Un Giovanni Battista Montini "segreto" di fronte a Dio e a se stesso

Il Direttore

Nel canonizzare una persona santa la Chiesa accende nel suo firmamento delle vie maestre, strade garantite per una laurea in santità. 

Giovanni Battista Montini, canonizzato il 14 ottobre scorso, pur avendo percorso un’esistenza cristiana singolare, al vertice delle gerarchia ecclesiastica,  la Chiesa lo propone come maestro possibile di imitazione, non tanto per il suo straordinario magistero, ma per la fecondità dei frutti maturati nella sua vita di creatura umana, vissuta con coerenza alla pagina delle beatitudini evangeliche.

In alcuni numeri de La Santa Crociata in onore di san Giuseppe, nei mesi scorsi don Gabriele Cantaluppi ha illustrato la vita pubblica di Giovanni Battista Montini. Prete, vescovo  della diocesi di Milano, pontefice della Chiesa universale con la missione di evangelizzare, annunziando al mondo la paternità con lo stile dell’apostolo Paolo. La santità di una persona non è legato ad un ruolo, ma fiorisce e fruttifica nella trama quotidiana del vivere le relazioni con il prossimo. 

La Provvidenza mi ha offerto l’opportunità incontrare l’arcivescovo Montini in una parrocchia del milanese. Di quell’incontro ho conservato la profondità dello sguardo. Uno sguardo così penetrante che ho rivissuto con la medesima sensazione nella basilica di san Pietro nel giorno della beatificazione di don Luigi Guanella. 

Quello sguardo di ieri, oggi mi accompagna nel leggere questa riflessione sulla morte. Questa meditazione autografa, senza data, fu pubblicata un anno dopo la sua morte di papa Montini dall’esecutore testamentario, nella persona del suo segretario personale, mons. Pasquale Macchi. 

Lo scritto con la caratteristica calligrafia minuta e chiara riecheggia fedelmente i sentimenti di una vita vissuta come un fervente e perseverante laboratorio di santità.

Paolo VI inizia la sua riflessione sulla sua morte con una citazione di san Pietro: «Sono certo che presto dovrò lasciare questa mia tenda». Con questa citazione il manoscritto prosegue con queste parole: «Questa ovvia considerazione sulla precarietà della vita temporale  e sull’avvicinarsi sempre più prossimo della fine si impone. Non è saggia  la cecità davanti a tale immancabile sorte.  […] L’ora viene. Da qualche tempo ne ho presentimento. Più ancora che la stanchezza fisica, pronta a cedere in ogni momento, il dramma delle mie responsabilità sembra suggerire come soluzione provvidenziale il mio esodo da questo mondo, affinché la Provvidenza possa manifestarsi e trarre la Chiesa  a migliori fortune. La Provvidenza ha, sì, tanti modi di intervenire nel gioco formidabile delle circostanze che  stringono la mia pochezza; ma quella della mia chiamata all’altra vita pare ovvio, perché altri subentri più valido e non vincolato dalle presenti difficoltà. Sono un servo inutile».

In queste parole velatamente si intravvede l’eventualità di precedere una rinuncia. Decisione attuata poi da Benedetto XVI. 

Poi papa Montini proseguiva: «Sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi gratitudine: questa vita mortale è, non ostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze e  la sua fatale caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno di essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! Né meno degno  d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’umo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille forze, dalle mille leggi, dalle mille bellezze e dalla mille profondità. È un panorama incantevole. Prodigalità senza misura. […] Finalmente a quest’ultima ora, curvo il capo e  alzo lo spirito. Umilio me steso ed esalto Te, Dio, la cui natura è bontà. Lascia che in quest’ultima veglia io renda omaggio a te, Dio vivo e vero che domani sarai mio giudice, e che dia a te la lode che ambisci, il nome che preferisci: sei Padre. Poi io penso, qui davanti alla morte, maestra della filosofia della vita, che l’avvenimento fra tutti più grande fu per me, come lo è per quanti hanno pari fortuna, l’incontro con Cristo, la vita. […] Poi ancora mi domando: perché mi hai chiamato? perché mi hai scelto così inetto, così renitente, così povero di mente e di cuore? […] La mia elezione indica due cose: la mia pochezza e la tua libertà, misericordiosa e potente, la quale non si ferma nemmeno davanti alle mie infedeltà, alla mia miseria, alla mia capacità di tradirti. […] Prego pertanto il Signore che mi dia la grazia di fare della mia prossima morte dono di amore alla Chiesa. Potrei dire che sempre l’ho amata; fu il suo grande amore che mi trasse fuori dal gretto e selvatico egoismo e mi avviò al suo servizio e che per essa, non per altro, mi pare di aver vissuto. Ma vorrei che la  Chiesa lo sapesse e che io avessi la forza di dirglielo, come una confidenza del cuore che solo all’estremo momento della vita si ha il coraggio di fare. Vorrei finalmente comprenderla tutta nella sua storia, nel suo disegno divino, nel suo destino finale, nella sua complessa, totale e unitaria composizione, nella sua umana e imperfetta consistenza, nelle sua sciagure e nelle sue sofferenze, nella debolezza e  nelle miserie di tanti suoi figli, nei suoi aspetti meno simpatici  e nel suo sforzo perenne di fedeltà, di amore, di perfezione e di carità. Vorrei abbracciarla, salutarla, amarla in ogni essere che la compone, in ogni vescovo e sacerdote che la assiste e la guida, in ogni anima che la vive e la illustra; benedirla. Anche perché non la lascia, non esco da lei, ma più e meglio con essa mi unisco e mi confondo: la morte è un progresso nella comunione dei santi.

Chi desiderasse il testo completo di questa riflessione di San Paolo VI, può chiedere fotocopia alla Direzione della Pia Unione Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.