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«Gli uomini preghino alzando mani pure». Queste parole di san Paolo fissano l’immagine del cristiano in preghiera tra il III e il VI secolo.

di Talia Casu

Il gesto universale, che nella sua spontaneità ed espressività esprime il rapporto intenso tra l’uomo e la divinità, è l’expansis manibus: la preghiera con le mani levate e gli occhi rivolti al cielo. Questo atteggiamento identificherà l’immagine dell’Orante. Nel mondo orientale antico è il gesto del fedele devoto, ma anche segno della divinità, e questo particolare ha indotto a pensare che nei gesti della preghiera si rivelasse anche la volontà del credente di imitare la divinità.    

È da notare che, nelle diverse civiltà, per indicare la preghiera si sia usata l’espressione “alzare le mani”, “levare le mani al cielo”; ciò è attestato da numerose fonti scritte, come l’Antico Testamento che è pieno di tali espressioni: «Alzerò le mie mani verso i tuoi precetti che amo, mediterò le tue leggi» (Sal 118, 48); «Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera» (Sal 140, 2). Lo stesso san Paolo, scrivendo al discepolo Timoteo, con parole decise dice: «Voglio dunque che gli uomini preghino, dovunque si trovino, alzando al cielo mani pure senza ira e senza contese» (1 Tm 2,8). Per le comunità delle origini, il gesto dell’Orante è l’atto più naturale compiuto nella preghiera, con un significato profondo che esprime la tensione di tutta la persona verso il Signore. La preghiera del cristiano è incessante perché egli vive costantemente alla presenza del Signore, in continuo colloquio con lui (At 12, 5; 1 Pt 1, 22; Col 14, 2). 

Nel cristianesimo delle origini l’expansis manibus affonda dunque le sue radici nella Scrittura, ma anche nella predicazione apostolica e trova la sua comprensione più profonda e attualizzazione nella comunità: nella sua vita liturgica, nell’azione catechetica battesimale e post-battesimale, omiletica, apologetica, esegetica dei Padri della Chiesa. 

Sarcofago detto “della via Salaria”, ca.275-300 d.C., Musei Vaticani, Museo Pio Cristiano. Il pastore e l’orante sono raffigurati al centro della composizione.Gesto-simbolo, eletto, della preghiera di ringraziamento, di supplica, di lode a Dio, che i catecumeni compivano nell’atto di rinuncia a Satana e di adesione a Cristo prima del Battesimo, da allora è presente nella vita quale memoria della salvezza ottenuta per mezzo del lavacro battesimale. Braccia distese, mani aperte e occhi elevati al cielo, sono espressione della libertà del cristiano davanti a Dio e manifestazione dell’immagine di Dio che il credente reca in sé. Sono la più importante espressione della pratica cristiana della fede: così ha sempre pregato la comunità dei fedeli in Cristo nell’assemblea liturgica come nel privato. Nel martire, il gesto è segno della salvezza eterna e della beatitudine nel paradiso. Nel fedele è espressione del sentimento grato per l’ottenuta guarigione fisica o spirituale, ma soprattutto è il signum salutis che lo unisce all’opera redentrice di Cristo, attuata nel sacrificio sulla croce: «Noi invece [le mani] non solo le leviamo, ma le allarghiamo mettendole nella stessa posizione che avevano quelle di Cristo durante la passione, e pregando confidiamo in lui» (Tertulliano).

Tutto questo è espresso nell’arte paleocristiana con la figura dell’Orante – che attinge alla personificazione della pietas romana.  Dalla prima metà del III secolo (si veda il sarcofago detto “della via Salaria”), l’Orante si diffonde rapidamente fino alla seconda metà del IV, quando la sua presenza inizia a diminuire. È inizialmente associata a pescatori, filosofi e pastori, inseriti in un contesto bucolico. 

Quale espressione della speranza della vita oltre la morte, del raggiungimento dello status beatifico nel mondo paradisiaco, rappresenta il martire, il santo, il defunto. Di quest’ultimo può riprodurre i tratti somatici ben delineati, l’acconciatura, i monili, indicando così lo status sociale. Sono frequenti i casi in cui l’Orante è accompagnato da Pietro e Paolo o da un martire, a significare la richiesta di intercessione dei santi martiri presso Dio per il defunto e di esserne guida nel suo viaggio verso l’aldilà. 

Il suo significato resta legato a quello originario e profondo che esprime la tensione di tutta la persona verso Dio; è la preghiera continua di canto e lode al Signore, al cospetto del quale l’uomo è riabilitato, dopo il peccato dell’origine, tramite il battesimo, il martirio, la guarigione spirituale e fisica, che sempre ha alimentato la vita del cristiano e non terminerà con il compimento della vita terrena, ma continuerà nella pienezza della vita ultraterrena, nella beatitudine raggiunta dall’anima, anche come preghiera di intercessione per i vivi. 

Tutto ciò si legge nel catino absidale di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna, dove il santo vescovo fondatore domina il centro della cornice inferiore: in piedi, in un contesto chiaramente paradisiaco, su un prato fiorito, circondato da uccelli, fiori, pietre e alberi sempreverdi (alloro, ulivo, cipresso), simboli di eternità. Rivestito degli abiti liturgici è ritratto orante, a significare l’intercessione del santo pastore per la comunità a lui affidata. Dodici pecore si dirigono verso di lui, presumibilmente simbolo dei fedeli della Chiesa ravennate. È un’immagine ecclesiologica quella del pastore con le sue pecore, che egli non conduce a sé stesso, ma al Cristo Pastore come espresso nell’atteggiamento orante di Apollinare, rivolto verso Cristo, centro di tutto il programma figurativo. Una ulteriore lettura del gesto expansis manibus vede una allusione alla croce, un riferimento all’imitatio Christi che si realizza pienamente in Apollinare e nel suo martirio. 

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