Giuseppe e Maria, nella circoncisione e nell’imposizione del nome al figlio,
ne riconoscono l'appartenenza al Padre dei cieli e la missione salvifica
di mons. Silvano Macchi
Nel Vangelo di Luca, l’episodio della visita dei pastori (2, 15-20) è seguito da un altro evento, la circoncisione del bambino e l’imposizione del nome. Il brano evangelico ritrae la Santa Famiglia: Maria, Giuseppe e il bambino, ma in particolare considera Giuseppe quale guida, educatore, padre autorevole.
Secondo la legge di Mosè, la circoncisione del neonato doveva avvenire otto giorni dopo la nascita. Il segno nella carne del bambino denotava la sua appartenenza al popolo santo, scelto da Dio, ed era accompagnato dall’imposizione del nome, che nella Bibbia è sinonimo della personalità dell’individuo, indice del suo destino. Così avvenne anche per il figlio di Maria; il neonato fu chiamato Gesù, secondo il comando che lei aveva ricevuto dall’angelo nell’annunciazione. Ma questi gesti spettavano al capofamiglia, anche se Giuseppe nel versetto evangelico in questione non viene menzionato.
L’attenzione di Luca, più che alla circoncisione, è però proiettata all’imposizione del nome, quasi a sancire il ridimensionamento di quelle cerimonie e di quei riti antichi e far emergere l’identità di questo bambino. Il nome “Gesù”, che in quell’epoca era piuttosto diffuso, aveva un significato impegnativo: “Dio salva” o “Salvatore”. L’accenno alla circoncisione è reticente, quasi furtivo; neppure si dice che il bambino fu circonciso, ma solo che, scaduto il tempo fissato dalla legge per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. In Cristo Gesù infatti – scriverà l’apostolo Paolo, di cui l’evangelista Luca è stato collaboratore – non conteranno la circoncisione o la non circoncisione, ma soltanto la fede che opera per mezzo della carità (cfr. Gal 5, 6). Conta la promessa inscritta in quel nome, espressa nelle parole dell’angelo prima che gli eventi si realizzino.
Con la circoncisione di Gesù, voluta da Giuseppe e da Maria, essi attestavano che la vita del figlio non apparteneva a loro, e neppure al figlio stesso, ma soltanto al Signore del cielo e della terra. Quel loro figlio è un figlio di Dio e come tale va offerto, consacrato a lui. Dovrebbe essere così per ogni madre e per ogni padre: riconoscere che il figlio non è proprietà privata, non appartiene a loro ma a Dio. Questo gesto di obbedienza, che quel figlio sperimenta nella circoncisione, non sarà che la prima di una lunga serie di umiliazioni, dal battesimo al Giordano fino alla croce, attraverso le quali Gesù riempirà di verità i riti antichi, non annullandoli ma assumendoli su di sé e portandoli a compimento. Il nome a lui imposto riceverà forma nel tempo, realizzando la salvezza di Dio, perché Gesù porta redenzione.
Con grande suggestione allegorica, sant’Ambrogio commenta che l’antica prescrizione diventa simbolo della resurrezione di Cristo, avvenuta nel primo giorno dopo il sabato, cioè nell’ottavo giorno. La circoncisione, segno di sangue e di morte, celebrata l’ottavo giorno dopo la nascita, è segno di resurrezione, espressa in questo caso proprio dal nome del bambino.
È l’imposizione del nome l’aspetto più importante; Maria e Giuseppe obbediscono all’an-
gelo imponendogli il nome da lui indicato, in attesa di conoscere la verità che contiene.
Dare al bambino il nome implica un atto di fede. Maria aveva concepito quel figlio già obbedendo alle parole dell’angelo; di nuovo lo “genera” assegnandogli con Giuseppe il nome scelto non da lei, ma dall’angelo stesso. Maria e Giuseppe anche in questo caso si conformano alla volontà di Dio e la verità di quel nome sarà poi sancita dalla vicenda storica di quel bambino. È ancora l’apostolo Paolo, nella Lettera ai Filippesi, a riassumere con efficace sintesi il senso del cammino di quel figlio, che inizia sotto gli occhi di Giuseppe e Maria: egli pur essendo nella condizione stessa di Dio, non considererà la sua uguaglianza con Dio come un tesoro da difendere con gelosia; svuoterà sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. E proprio grazie alla sua obbedienza Dio lo esalterà e gli darà un nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore», a gloria di Dio Padre (cfr. Fil 2, 6-11).
Ma perché tutto questo si realizzi, c’è bisogno di un padre e di una madre. E il ruolo di Giuseppe (per quanto trascurato da Luca) è inscindibile da quello di Maria: il loro accordo, l’intesa, il raccoglimento è perfetto e affatto scontato (anche a loro non saranno risparmiati dolori). Non solo è perfetto l’accordo tra lo sposo e la sposa, ma è perfetto l’accordo di entrambi con la volontà di Dio, nel consegnare e nel consacrare questo bambino sconosciuto, misterioso e tanto impegnativo, al mondo.
Quel bambino non è un “caso” della vita (come anche la nostra vita non è mai un “caso”) e i santi genitori riconoscono che il senso, la verità della sua vita non viene da loro, ma appartiene esclusivamente al Padre dei cieli. È qui racchiuso tutto il valore del compito educativo dei genitori, come pure tutto il significato della ritualità religiosa, contro certi luoghi comuni odierni che molto spesso inducono i genitori a pensare: «Quando sarà grande deciderà da solo, se vuole o meno il Battesimo, la Cresima, la Comunione». Non si deve aspettare quando il figlio sarà grande! Come fecero Giuseppe e Maria, i genitori devono impegnare loro stessi di fronte al figlio, con trepidazione e insieme con sicurezza e fiducia, nella certezza di compiere non riti “vuoti”, ma gesti consapevoli che danno valore al presente e direzione al futuro.