L’esperienza, faticosa ma felice, dei genitori di un figlio con disabilità chiede di essere condivisa nelle comunità. Ricordando sempre che ogni persona ha una ricchezza da offrire
di Ezio Aceti
Premessa
Avere un figlio è un’esperienza comune a molte coppie e di solito è positiva e ricca di tenerezza; implica anche fatica, ma lascia nell’intimo una gioia piena, come per un traguardo che i nuovi genitori hanno raggiunto. Infatti l’amore della coppia lentamente matura e si arricchisce nell’amore genitoriale.
Ma avere un figlio “speciale” in quanto portatore di disabilità è cosa differente. È un’esperienza unica, piena, profonda, ma anche ricca di tensione, di ansia e spesso di grande sconforto. Conduce a comprendere che la vita è dura, faticosa, ma può essere comunque felice. Infatti l’amore materno e paterno viene messo a dura prova quando il figlio risulta affetto da una qualsiasi patologia invalidante, poiché la prospettiva del futuro viene percepita come incerta e carica di tensione. Cerchiamo allora di dare uno sguardo al vissuto di questi genitori, per quanto sia possibile intravvedere i percorsi da mettere in campo.
Esperienza dei genitori
Di fronte a un figlio con disabilità le reazioni dei genitori e dei parenti sono differenti perché dovute sia all’educazione ricevuta, sia ai vissuti emotivi/affettivi della vita. La presenza di una disabilità mette a confronto i genitori con il loro immaginario e con i loro desideri più profondi. Le domande che affiorano più frequenti sono: «Questo figlio vivrà? Come sarà il suo futuro? Saremo all’altezza del compito educativo? E dopo di noi sarà in grado di cavarsela?».
Naturalmente la risposta a queste e ad altre numerose domande che i genitori giustamente si pongono non è semplice, perché ogni storia è un evento a sé, personale e irripetibile, e necessita di tenere conto di molti fattori. Possiamo però riassumere in quattro punti le variabili in gioco.
1) La patologia da cui è affetto il bambino. Sicuramente la variabile più importante è il grado di invalidità del bambino, la prognosi, le possibilità di cura e tutte le risorse e conoscenze disponibili per “combattere” la malattia che causa l’invalidità.
2) La personalità dei genitori, dovuta non solo alla educazione che hanno ricevuto, ma soprattutto alla capacità di vivere una nuova storia familiare, certamente carica di sofferenza e frustrazione, ma anche accompagnata da gioie e conquiste.
3) L’ambiente umano circostante, su cui la famiglia può fare affidamento per la crescita del figlio. I nonni, gli zii, i parenti più stretti, ma anche gli amici, la comunità, la parrocchia, insomma il tessuto connettivo dei rapporti e delle relazioni familiari e personali.
4) La filosofia di vita dei genitori. Chi è credente vede nella sofferenza la possibilità di testimoniare l’amore di Dio e si mette a curare la malattia sostenendo sempre il proprio bambino. Chi non crede ma comunque si fonda su valori umani positivi ritiene che il proprio compito sia quello di preservare e salvaguardare il futuro del bambino. Vi sono genitori magari meno attrezzati, che fanno più fatica, mostrando sintomi di sconforto e di scoraggiamento, ma neanche a loro mancano fiducia e speranza.
Naturalmente, è importante comprendere che nessuno deve ergersi a giudice o a maestro, ma che ogni famiglia fa parte della grande famiglia umana: anche se il figlio con disabilità appartiene a una singola coppia, in realtà è anche di tutti, è della comunità. C’è un proverbio africano che dice: «Per educare un bambino ci vuole un villaggio», affermazione bellissima e profondamente vera. Ma lo è ancor più quando il bambino è fragile e bisognoso di cura. Perché la grandezza e la civiltà della comunità si misura non tanto sulle cose che possiede, ma sulla capacità di tutelare i più fragili e i più sofferenti.
Quale educazione?
Dopo aver descritto i vissuti che probabilmente entrano in gioco nella vita di una famiglia di un bambino con disabilità, accenniamo brevemente a quanto occorre tenere presente sul versante educativo.
Fermo restando che l’obiettivo è quello di aiutare il figlio a raggiungere il massimo possibile di autonomia, è fondamentale attingere a tutte le risorse che la scienza mette a disposizione, quali sono i vari metodi di riabilitazione, i vari supporti personalizzati (l’insegnante di sostegno) o i vari ausili necessari. Ma è sicuramente fondamentale anche l’atteggiamento che la famiglia deve mantenere.
Occorre il massimo dell’impegno e della attenzione, insieme al massimo dell’accoglienza che
lentamente si farà strada durante la vita. Un figlio “speciale” può dare molto ai genitori se questi si lasciano plasmare da quanto il vissuto insegnerà loro. Allora sarà facile capire che la vita non si basa sul possesso o sulla ricchezza, ma sull’amore e sulla condivisione. Si arriverà a comprendere che le piccole conquiste del figlio sono in grado di ripagare i pur impegnativi sforzi e a conquistare una dimensione personale della gioia, dovuta alla capacità di sacrificare sé stessi per un bene più grande. Si coglierà che l’apertura alla comunità fa partecipi gli altri di una dimensione di attenzione e cura che conduce a scoprire l’umano che c’è in noi.
Insomma la disabilità va “combattuta” con tutte le energie, ma la persona non solo va amata, ma va riconosciuta nella sua capacità di donarci quanto la sua esistenza offre.
Conclusione
Se da una parte si comprende quanto sia importante che la comunità sostenga le famiglie con figli portatori di disabilità, d’altra parte dobbiamo ringraziare tutte queste persone più fragili, perché ci danno la possibilità di cogliere la “sostanza” della vita. Infatti l’efficienza, la competitività, il carrierismo capitolano di fronte ad un figlio con disabilità, lasciando il posto alla solidarietà, alla condivisione, alla tenacia e all’amore.