di Madre Anna Maria Cánopi
Il mistero dell’infanzia e della vita nascosta di Gesù Cristo, che abbiamo contemplato nel Tempo di Natale, trova nel mistero pasquale la sua piena fioritura e il suo frutto maturo. Il germoglio della radice di Jesse è diventato un grande albero; sulla terra è sbocciata una nuova primavera della vita. E questo miracolo avviene innanzitutto nei cuori dei credenti.
La Risurrezione di Cristo è l’evento che sta alla fonte dell’anno liturgico: da essa derivano tutte le altre feste. La fede cristiana, infatti, si fonda sulla morte redentrice e sulla Risurrezione del Cristo. Come afferma san Paolo, se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede e noi saremmo da commiserare più di tutti gli uomini. «Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (cf. 1Cor 15,15-20).
In lui risorto, anche noi possiamo risorgere a vita nuova, liberata dal peccato e dalla morte. Questo evento è così grande, così determinante per la storia dell’umanità che non può bastare un giorno solo per celebrarlo. La Chiesa prolunga allora per otto giorni la festa della Domenica di Risurrezione, facendo memoria di giorno in giorno dei vari incontri del Cristo Risorto con i suoi discepoli. Questa settimana è denominata “in albis”, perché nei primi secoli del cristianesimo quanti, già adulti, avevano ricevuto il battesimo durante la Veglia pasquale indossavano durante l’intera settimana la veste candida (alba) consegnata loro durante il rito.
Anche l’Ottava, però, non bastava a fare memoria del grande mistero. Ecco, allora, l’istituzione del Tempo Pasquale considerato come una festa continua, per la durata di cinquanta giorni, dalla domenica di Risurrezione alla discesa dello Spirito Santo a Pentecoste, con cui inizia il “tempo della Chiesa”, il tempo della nostra quotidiana testimonianza cristiana nel mondo.
Mentre durante la Quaresima la Chiesa pratica il digiuno, sospende il suono dell’organo, il canto dell’alleluia e riveste la liturgia di segni penitenziali, nel tempo pasquale riprende tutti i segni di festa e di esultanza. L’Alleluia è il canto di gioia che ricorre più frequentemente: è come un profumo sparso su tutti i testi liturgici.
Anche il tempo di Pasqua, però, richiede al credente una particolare “ascesi”, non meno impegnativa di quella quaresimale: è appunto l’ascesi della gioia. Non è un paradosso, come potrebbe forse sembrare, perché la gioia che il Cristo risorto ci offre – e che la liturgia instancabilmente propone al cristiano – non è un semplice godimento sensibile, emotivo, in circostanze favorevoli, ma una vibrazione dello spirito davanti alle realtà soprannaturali; la partecipazione alla beatitudine di Dio. È la gioia dell’amore vero, dell’amore libero dalla schiavitù del peccato, libero di donarsi, libero dalla vecchia mentalità mondana. È la gioia della vita risorta, della santità.
Tale gioia non è qualcosa che possiamo procurarci da soli o trovare per caso ad una svolta della nostra strada, ma è un tesoro che dobbiamo scoprire e custodire. È, insomma, frutto di quella fede, di quella speranza e di quell’ardente e fedele amore che testimoniarono le pie donne recandosi al sepolcro di Cristo all’alba del primo giorno, mentre tutta l’atmosfera in loro e attorno a loro era ancora resa cupa e pesante dal dramma del Venerdì Santo: «Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salome comprarono oli aromatici per andare a ungerlo. Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole» (Mc 16, 1-2). E incontrarono Gesù risorto.
In questo cammino sollecito e silenzioso delle pie donne ai primi albori si può vedere la conclusione del lunghissimo viaggio che Dio fece compiere all’umanità per strapparla dal potere delle tenebre e trasferirla nel regno del Figlio del suo amore (cf. Col 1,13). Si passa dalla notte della morte al Giorno senza fine.
La luce è la vera protagonista della Pasqua, come già del Natale: luce purissima dell’alba; luce sfolgorante dell’angelo che siede accanto al sepolcro; luce di fede, di amore e di gioia che invade l’intimo delle mattiniere mirofore, chiamate a diventare le prime annunciatrici della Risurrezione. Già la Santa Veglia l’aveva solennemente annunziata nella “liturgia della luce” con l’accensione del cero pasquale al “fuoco nuovo”: Lumen Christi!
Per l’umanità e per l’universo è spuntato un nuovo giorno, un altro primo giorno della loro esistenza. Come il Sia la luce pronunciato da Dio aveva trasformato il caos primordiale in firmamento brulicante di stelle, così ora, per mezzo del Cristo risorgente, Dio pronuncia la sua Parola di vita e di benedizione sul mondo immerso nelle tenebre del peccato e dà inizio alla trasformazione dell’umanità e di tutto il creato in quella nuova realtà che sarà pienamente visibile alla fine dei tempi, ma che fin d’ora cresce silenziosamente nel segreto dei cuori.
La Chiesa invita quindi ogni creatura alla gioia e al rendimento di grazie: «Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo! Alleluia!» (Sal 118, 24).
La liturgia pasquale si unisce all’alleluia che incessantemente risuona nella celeste Gerusalemme di cui lo stesso Agnello immolato è lampada illuminante (cf. Ap 21,23), poiché la luce emana proprio dalle gloriose ferite del Risorto. Dice l’angelo alle pie donne: «Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto… Lo vedrete, come vi ha detto» (Mc 16, 6).
Come le pie donne, anche noi ogni giorno possiamo metterci in cammino come se fosse l’alba di quel “primo giorno” e aprire lo sguardo alla luce gloriosa di Cristo, anzi, alla Luce che è Cristo stesso, cantando con la nostra vita: Cristo, mia speranza è risorto! È risorto in me, per la gioia di tutti.
Per tutti, infatti, la rinnovata celebrazione del mistero pasquale costituisce una riconferma e un aumento della grazia battesimale, una reimmersione nella morte e nella risurrezione di Cristo mediante la rinnovazione delle promesse battesimali. È un nuovo incontro con il Signore che sollecita una risposta di fede e di amore semplice, senza riserve: proprio come la sa dare chi ha il vero, evangelico spirito d’infanzia.
È su questo aspetto che ci invita ad interrogarci in particolare la liturgia della II domenica di Pasqua - o Domenica in albis – che è anche, per volontà del papa Giovanni Paolo II, la “Festa della divina misericordia”.
Lo spirito d’infanzia, la semplicità da «bambini appena nati» (1Pt 2,2) non è, tuttavia, da confondersi con l’ingenuità o la spensieratezza. È invece piuttosto il risultato di una lunga ascesi di spogliazione, di semplificazione interiore e di rinnegamento di sé.
Ce ne dà una convincente dimostrazione la liturgia della Parola scelta con sapienza dalla Chiesa per questa domenica. Accanto al passo della prima lettera di Pietro che ci invita a “desiderare il puro latte spirituale”, ossia a nutrirci di tutto quello che può custodire la purezza al nostro cuore, sta la pagina evangelica che descrive il “cammino di fede” dell’apostolo Tommaso. Uomo realista e razionale, egli fa eccessivo affidamento sui dati sensibili della conoscenza: vuole vedere, vuole toccare, sperimentare. È il vero tipo dell’uomo contemporaneo, scientifico, tecnico, scettico nei riguardi di tutto ciò che sfugge al suo controllo. E Gesù ha la paziente bontà di adeguarsi alle sue esigenze, ma, nella sua grande misericordia, trasforma quel contatto sensibile in un contatto di grazia: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco» (Gv 20, 27). La mano di Tommaso si brucia alla fornace della divina carità, il suo sguardo si snebbia e vede al di là dell’apparenza. «Gli rispose: “Mio Signore e mio Dio!”» (v. 28). Ora egli vede nella luce della fede e, di conseguenza, il suo amore verso il Maestro diventa una fiamma divampante. Ora ha raggiunto la maturità del credente e ha acquistato la vera fortezza che vince il mondo (cf. 1Gv 5,4 ss.).
Ogni giorno, nell’ascolto della Parola di Dio e nell’Eucaristia – il puro latte spirituale di cui parla l’apostolo Pietro – è dato anche a noi di toccare le piaghe gloriose del Cristo e di esserne purificati e vivificati. È un contatto che non appaga i sensi, ma illumina il cuore e lo rende capace di quel puro atto di fede che fa pronunziare a Gesù una nuova – l’ultima – beatitudine: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (v. 29). Di fronte all’uomo della scienza sperimentale e perennemente insoddisfatto che ci vive accanto, noi dovremmo essere davvero un’incarnazione di questa beatitudine.
Celebrare la Pasqua con questa consapevolezza di fede significa anche saper contemplare nell’universo la gloria di Dio e, ancor più, vedere risplendere sulla fronte di ogni uomo il sigillo della sua appartenenza alla stirpe divina. Allora, nonostante l’addensarsi delle tenebre del male che premono ancora da ogni parte, noi possiamo e dobbiamo stare saldi nella fede e sereni, perché Cristo in noi, speranza della gloria (cf. Col 1,27), è la luce che non si spegne e che rischiara anche i sentieri tortuosi della storia, segnati da tristissimi eventi di violenza e di morte.
Gesù sapeva quanto sarebbe stato arduo per i suoi seguaci custodire intatta tale speranza camminando lungo le desolate strade del mondo, in mezzo ad una umanità malata di angoscia o accecata dalla luce di falsi valori. Per questo egli, pur tornando al Padre suo nei cieli, non ci ha abbandonati, non ci ha lasciati orfani, ma è rimasto con noi. La liturgia pasquale, di settimana in settimana, ci aiuta a scoprire accanto a noi la sua presenza di Viandante e Pellegrino (cf. Lc 24,13ss), di buon Pastore (cf. Gv 10,1-18), di umile Mendicante (Gv 21,1-14), che cammina con ogni generazione, fino alla fine del mondo.