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di Enrico Ghezzi

San Paolo nelle lettere indirizzate ai Romani e ai Galati, a proposito del confronto assai polemico col mondo ebraico (da cui Paolo veniva e nel quale era stato severamente educato), insiste sul rapporto che corre tra la Legge e la fede in Dio che “giustifica”.
L’apostolo fonda la sua dottrina della ‘giustificazione’ (= essere liberati dal peccato e partecipare alla eredità dei figli di Dio), ricorrendo alla fede di  Abramo, il padre del popolo ebraico: Paolo afferma che in lui, in Abramo, anche i popoli pagani (oggetto della sua infaticabile predicazione), pur non conoscendo ancora Dio, sono chiamati, poiché il Signore aveva già ‘benedetto tutte le nazioni’ (Gal 3,8; cfr. Gen 12,3); e poiché la ‘fede’ di Abramo ‘gli fu accreditata come giustizia’ (Rm 4,8), Abramo può essere riconosciuto come ‘padre di tutti noi’ (4,16): da qui, la solenne proclamazione di Paolo: ‘di conseguenza quelli che vengono dalla fede, sono benedetti insieme ad Abramo, che credette’ (Gal 3,9).


Storicamente, Abramo è il ‘primo’ uomo che Dio, rivelandosi, chiama alla fede: nessuno infatti può raggiungere una fede salda e consistente, senza una interiore ‘illuminazione’ di Dio, una ‘parola’ che Dio, in molte forme e in diverse situazioni, semina nel cuore dell’uomo.
Cos’è la ‘fede’? è una ‘fiducia’ concessa a una persona. L’immagine più immediata di fede è quella infantile  dei bambini che si affidano tra le braccia dei genitori, ma sulla fede si basa anche la nostra fiducia di adulti, quando ci affidiamo alla capacità di chi porta un aereo o conduce un bus, o la fiducia nel nostro medico o nell’insegnante della scuola. Facciamo ogni giorno atti di fede negli altri, perché così è la struttura dei rapporti umani: nessuno può vivere da solo. La fede è perciò ‘affidarsi’.
Teresa del Bambin Gesù, pur tra dolori e terribili notti di buio interiore, nella via della sua infanzia spirituale, si affiderà con fiducia nelle braccia del Padre nel quale è certa di trovare la risposta dell’amore. Così Teresa di Calcutta, così Charles de Foucauld, così il grande teologo protestante Bonhoeffer ucciso dai nazisti dopo lunghi anni di prigionia, così la teologa figlia di Abramo e della Chiesa, Edith Stein, anch’essa vittima dell’olocausto.
La fede è anche e soprattutto adesione al mistero di Dio, e spesso è una lotta col silenzio di Dio. Un silenzio al quale Dio chiede la nostra adesione fiduciale. Qui dovrei ricordare, nella lunga esperienza pastorale di parroco tra la gente, la fede intensa, innocente, eroica e silenziosa di tante mamme e papà: senza teologia, ma veri teo-logi, perché interpreti fedeli del disegno di Dio nella loro vita e dentro la loro sofferenza e speranza.
Senza questa fede del nostro popolo, non potrebbe esistere la Chiesa; la nostra fede di preti o di pastori è spesso lacerata da dubbi, da tradimenti, da incertezze: la fede invece del nostro popolo è luminosa, silenziosa, sostanziale, rocciosa: è l’ ‘amen’ con cui spesso la Bibbia descrive il ‘sì’ a Dio.
La fede in Dio è la nostra risposta ai suoi progetti; è la nostra fiducia in Dio, perché Dio è fedele, come si vede in ogni pagina della Bibbia. Abramo, per ricorrere ancora a san Paolo, è “Padre di tutti coloro che credono” (Rm 4,11): si è davvero ‘affidato totalmente’ a Dio, come la Scrittura rivela presentando il ‘padre’ e il ‘fondatore’ del popolo ebraico. Certo, anche quando la fede è totale, non è mai certa e assoluta in maniera fideistica: ha anche basi di razionalità: capisco e accetto con la mia intelligenza che Dio esiste e può chiamarmi dando un senso alla mia esistenza. La fede è un atto di intelligenza a un dono o a una chiamata che Dio crea nella mia vita. C’è un intero capitolo dell’autore della lettera agli Ebrei che tratta a lungo su come intendere il discorso sulla fede: essa è il nostro ‘sì a Dio’, anche quando questa adesione ci rimane oscura.
È nel capitolo 2° della Lettera agli Ebrei, che ognuno può leggere e dove è descritta la fede di molti personaggi dell’AT, dove l’autore dà la definizione di ‘fede’: “fondamento di ciò che si spera, e prova di ciò che non si vede” (Eb 11,1). Proprio in questa certezza in ciò che ‘si spera’, pur ‘non vedendolo’, si comprende come la fede attinga le sue radici sia nella nostra intelligenza sia nella coscienza illuminata da Dio.
È un dono che razionalizza il senso della nostra esistenza. Così di Abramo è detto: “Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava” (Eb 2,8). Così Sara, l’anziana moglie di Abramo, ‘per fede’, in tarda età, divenne madre di Isacco (cfr. 2,11).
La fede dunque nasce quando si fa in noi l’esperienza della ‘voce’ di Dio che chiama. Nella fede noi affidiamo il nostro ‘sì’, alla parola di Dio, e perciò la fede è sempre  preceduta dall’azione di ciò che chiameremo  la ‘grazia’ di Dio. Nessuno può credere da sé, se Dio non insinua nel nostro intimo spirituale la luce e la forza della sua parola.
In questa luce, mi sembra che tre siano i momenti decisivi della storia di Abramo di fronte a Dio che parla e che il libro della Genesi ci tramanda: l’ordine di Dio ad Abramo di partire dalla sua terra e la promessa di una grande discendenza (Gen 12, 1-4), le promesse divine e l’alleanza (c. 15), l’obbedienza di Abramo con il sacrificio di Isacco (c. 22).

1. Abramo è un nomade originario della città di Carran nella  Mesopotamia, di origini pagane, disposto a percorrere un lungo viaggio verso una terra sconosciuta che è Canaan, dietro l’invito di Dio a ‘partire’.
Il testo jahvista di questo racconto è scarno, essenziale e decisivo.   
Gen 12,1-4: “Il Signore disse ad Abram: ‘Vattene dalla tua terra, e dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò…e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra. E allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore…”.
Questa è la ‘fede’ di Abramo che farà parlare poi tutta la storia di Israele: voglio sottolineare ancora una volta che si può parlare di fede, in Abramo di fede assoluta, quando c’è, antecedentemente, la ‘parola di Dio’ che ci previene, ci interpella e ci spinge alla scelta. La fede biblica indica il nostro ‘sì’ a Dio.
Mi colpisce, nella fede di Abramo, questo verbo decisivo: Abramo ‘partì’ (v.4).
Non importa verso ‘dove’, non si conosce ancora la meta, non si fanno previsioni sul viaggio. ‘Partire, andare, uscire’, sembrano i verbi biblici che meglio descrivono la storia della fede: così sarà anche per Mosè nel far uscire il popolo ebraico dall’Egitto, nel libro dell’Esodo, così faranno i profeti Isaia e Geremia, sottratti dalla loro vita tranquilla per una missione ardua e difficile in mezzo al popolo, così agiranno nella storia del cristianesimo molti missionari e testimoni del vangelo. La disponibilità alla ‘partenza’, a lasciare le sicurezze, gli affetti, i propri progetti, è spesso alla radice del mistero con cui Dio agisce nella nostra storia. Gesù realizza il progetto della salvezza del mondo lasciandosi guidare in ogni istante dalla volontà del Padre, come testimonia il quarto vangelo di Giovanni.
La partenza di Abramo, come atto di fede assoluta, tuttavia non elimina l’uso della sua volontà e della sua intelligenza. E questo avviene anche nella nostra esistenza di fede: anche le nostre scelte sono spesso vagliate non tanto dall’opportunità o dalla semplice obbedienza, ma vengono vissute nel profondo della nostra coscienza che fa apparire grande e generosa la proposta di Dio, non meno affascinante delle promesse di Dio al nostro padre Abramo.
In questo senso, la fede è sempre un abbandonarsi alla ‘parola’ che Dio interiormente ci rivela: la fede è perciò un rispondere a Dio che chiama. Potremmo ancora dire: la fede è il rivelarsi in me della volontà amorosa di Dio che, nell’amore, progetta la mia vita. Un progetto che spesso attraversa la sofferenza e la persecuzione.