Proseguiamo la nostra riflessione sulla quinta parola del Decalogo: non uccidere. Abbiamo già visto che “uccidere” qui dice la relazione con l’altro resa spezzata o deformata dalla violenza. In estrema sintesi, potremmo dire che “uccidere” si verifica tutte le volte che un altro viene cancellato dalla nostra vita. Ancora, abbiamo osservato che la fraternità che il comandamento ci impegna a vivere non è un rapporto a due, io e il mio amico, ma un rapporto a tre: io, l’altro e Colui che ci ha posti l’uno accanto all’altro. In questo senso, per risanare le ferite nelle nostre relazioni interpersonali dobbiamo guardare a questo terzo soggetto, Iddio, che ha amato entrambi per primo condonando a ognuno ogni debito: possiamo quindi accoglierci gli uni gli altri, come Lui ci ha accolto.
Del resto, possiamo ricordare la parabola di Mt 18, 23-33, sui due servi al primo dei quali il padrone condonò il debito: “non dovevi forse avere pietà di lui come io ho avuto pietà di te?”. Il che significa, del resto, niente di più che l’interiorizzazione della preghiera che già facciamo nel Padre Nostro: “rimetti a noi i nostri debiti come [anche] noi li rimettiamo ai nostri debitori”, o, se vogliamo, “come tu già hai perdonato a noi, così dona a noi di perdonarci tra di noi nello stesso modo con il quale tu ci hai perdonati”. Per questo è inutile rivangare i torti subiti o, al contrario, accusarsi di avere “pensato male”, ma è molto più utile guardare a Lui, come sta scritto: “Guardate al Signore e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti” (Sal 34).
Un consiglio molto spiccio che darei a tutti coloro (e siamo tutti quanti) che fanno fatica ad accogliere e perdonare, perché sperimentano l’ingiustizia o la violenza di certe situazioni, è di non chiudersi in un rapporto “a due”, ma di aprirsi a una “triangolazione”, ad un rapporto a tre, vedendo e considerando noi accanto e sotto Colui che ci ha accolti per primo e che sulla croce ha detto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Mi ha molto aiutato il pensare a me e al crocifisso, come fossi sul Calvario: contemplarlo, parlargli, ascoltare le sue parole. E poi immaginare che vicino a me, sotto la croce, venisse anche quello o quella con il quale non riesco a essere fratello: Gesù ascolta quello che noi ci diciamo, vede quel che facciamo, patisce del nostro dissidio. E’ Lui che è insultato in me quando io sono insultato, ed è Lui che io insulto quando insulto il mio fratello, perché ha detto: “Tutto quello che avrete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. E allora, cosa direbbe a me? Cosa direbbe a lui? Che cosa direbbe a noi due? E io, che cosa posso dire di nuovo a quel fratello o quella sorella dopo avere ascoltato le parole di Gesù? Cosa possiamo fare o dire noi due ora davanti a Lui? Vedete che, in fondo, è la stessa dinamica che ho cercato di descrivere quando dicevo di pregare lentamente e a lungo il “Padre Nostro”.
Insomma, per ricapitolare definitivamente il quinto comandamento, possiamo dire che uccidiamo tutte le volte che, come appunto Caino, diciamo a Dio: “Sono forse il custode di mio fratello?”. Cioè: non mi interessa niente di lui. Al contrario, Dio rivela la verità di noi stessi appunto nell’essere l’uno il custode dell’altro. Potremmo dire che l’amore, non nel senso sentimentale o psicologico, ma nel suo senso più vero, cioè il “prendersi cura”, è l’unico atteggiamento possibile al cristiano. Tutto il resto equivale ad uccidere. Ira, rancore, gelosia, maldicenza (ne uccide più la lingua che la spada, dice un proverbio molto vero), sono sintomi di un malessere che non fa che condurci non solo alla distruzione dell’altro, ma anche alla nostra stessa autodistruzione e malessere: infatti ci privano della gioia e della dolcezza del vivere. D’altra parte, la sfida è proprio questa: stare in mezzo alle inevitabili violenze e conflitti che la vita riserva – poiché ci sono davvero delle persone che ci trattano male – cercando continuamente di fare dritti, o raddrizzare, questi rapporti mal riusciti. Di qui l’importanza del benedire coloro che ci fanno del male, di pregare per i nemici, di non tenere mai – per quel che dipende da noi – chiuse le porte ad alcuno, a rispondere al male con il bene e, almeno, di portare i pesi gli uni degli altri: “Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi”. è qualcosa che ricominciamo ogni giorno. In questo senso, il quinto comandamento diventa, nelle parole di Gesù: “Beati gli operatori di pace”.