Itinerario verso la vocazione monastica
di Madre Anna Maria Cánopi osb
La vocazione è un mistero di grazia: non è facile descriverne l’origine e lo sviluppo. Riconosco che la mia vocazione monastica ha le sue radici già nell’infanzia, poiché ho sempre sentito lo sguardo di Dio su di me e ho sempre provato una forte attrattiva verso il Signore, verso la preghiera e il sacro in genere.
Le suore che allora tenevano l’orfanotrofio nel mio paese mi accoglievano a pregare nella loro cappellina e forse speravano che un giorno sarei entrata nella loro famiglia religiosa. Così anche le suore di un altro Istituto che facevano servizio negli ospedali; ma ero adolescente e ancora impegnata a studiare; non era ancora il tempo di pensare a questo.
Avevo circa vent’anni quando la mia buona ex insegnante di scuola elementare, che chiamavo “madrina”, mi accompagnò nel parlatorio del Seminario diocesano per presentarmi a un sacerdote che si dedicava alla formazione dei seminaristi e alla gioventù di Azione Cattolica.
«Ascolti, per favore, questa giovane – gli disse – Ha dentro qualche cosa…», e mi lasciò sola con lui. Egli, vedendo la mia timidezza, cominciò a farmi amabilmente domande circa la mia famiglia, il mio ambiente di vita e i più intimi desideri del mio cuore. In quel tempo, tra i diversi giovani che mi giravano attorno ve n’era uno al quale mi ero affezionata a motivo di sua madre, vedova, che egli faceva molto soffrire conducendo vita scapestrata e trascurando gli studi universitari. Gli volevo bene, ma il mio intento era soltanto quello di farlo diventare buono. Del resto, lui stesso non osava farmi le proposte che solitamente faceva a tutte le ragazze. Teneva infatti un quaderno su cui scriveva i nomi di quelle che aveva “conquistato”, vantandosi di averne elencate già un centinaio! Dopo molti anni, venni a sapere di una sua confidenza fatta ad un amico che allora si stupiva del fatto che non tentasse di sedurmi: «Quando pensavo di conquistarla, una voce mi ha gridato: Quella non la tocchi!». Cose strane, ma che certamente avvengono sotto la regia divina. Per questo di nulla possiamo vantarci se non della gratuità della salvezza operata da Dio.
I colloqui periodicamente avuti con il sacerdote che divenne il mio Padre spirituale misero in evidenza che la mano di Dio era su di me e che in realtà era unicamente Gesù colui che io amavo. Don Aldo Del Monte mi disse che per esprimere questo amore esclusivo potevo fare privatamente voto di castità. Così feci per alcuni anni, mentre terminavo gli studi e lavoravo, ma non mi bastava. Mi sentivo spinta a una scelta più radicale, perciò, sempre con l’aiuto del Padre spirituale, mi misi alla ricerca di un monastero.
In Svizzera si stava formando una comunità monastica di rito orientale, legata a Chevetogne, che si proponeva di andare al più presto in Russia, per essere una presenza di sostegno in mezzo a quel popolo, per aiutarlo nell’auspicata prospettiva della sua rinascita cristiana.
Mi resi disponibile, ma un saggio consiglio del vescovo di Lugano mi trattenne. In quegli anni feci alcune soste per Esercizi spirituali presso le Benedettine di Loppen (Belgio) e presso i Benedettini di Beuron (Germania) dove era ancora tanto vivo il ricordo di Edith Stein, figlia spirituale dell’abate P. Raphael Walzer e per anni loro ospite nella Settimana Santa. Mi misi infine in contatto con la fiorente Abbazia benedettina di Viboldone, sorta durante la seconda guerra mondiale sotto il paterno impulso del Beato card. Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano. Mi sentii subito avvinta dalla sua atmosfera spirituale e dopo alcune soste di preghiera e discernimento, feci la domanda di ingresso che fu accolta.
Una volta presa la decisione, mi trovai davanti al nudo realismo di quello che stavo facendo. Si trattava di lasciare per sempre le mie colline, la mia famiglia: i miei genitori anziani, i fratelli, le sorelle, i miei nipotini che allora erano sette ed ora trentasei! Il Signore li ha fatti crescere proprio perché glieli ho offerti.
Mia madre, a sua volta, mi ricordava che quand’ero piccola dicevo di voler diventare mamma di venti bambini… E adesso? Rinunciare ai bambini era effettivamente la cosa che più mi costava. Ma una notte vidi in sogno una sterminata moltitudine di bambini, mentre una voce mi diceva: «Vedi? Sono tutti tuoi». Questo mio sogno era stato preceduto da uno di mia madre. Lei teneva sulle braccia un mazzo di rose rosse, tra le quali una bianca. Gesù le disse: «Questa la devi donare a me». Ed ella gliela diede, chiedendosi con tremore se non fosse un presagio di morte prematura di uno dei suoi figli. La mia partenza per il monastero le dava ora la chiave di interpretazione del sogno che l’aveva turbata.
Non sono una… “sognatrice” e non do eccessiva importanza ai sogni come se fossero tutti interventi soprannaturali, ma un altro, per la sua chiarezza simbolica, non si è più cancellato dalla mia memoria. Ero nella radura di un bosco, legata ad un albero; venne un angelo, mi slegò e io mi lanciai di corsa nella vasta prateria che mi stava davanti. Giunsi davanti ad un edificio, si aprì la porta e una figura ieratica mi porse un piccolo pane. Lo presi e lo mangiai. Tutta la scena si svolse in silenzio, in un’aura di mistero; e tutto mi faceva sentire che la mano di Dio era davvero su di me.
Era dunque giunta l’ora di partire, anche se attorno – a casa e a Pavia – tante braccia mi volevano trattenere. Il 9 luglio 1960 mio fratello maggiore e mia sorella minore – non ancora sposati, ma entrambi già fidanzati – mi portarono in automobile al monastero e ripartirono nascondendo le lacrime. A chi ci aveva accolti in portineria udii che mio fratello diceva: «Abbiate cura di lei, perché è gracile…». Di fatto tale apparivo, e la mia domanda di ingresso era stata accettata non senza qualche esitazione. Fu il mio Padre spirituale a intervenire con una parola rassicurante sulla mia “robustezza”! Del resto il medico cui avevo richiesto il certificato di sana e robusta costituzione, sentendo per che cosa mi serviva, mi aveva guardata un po’ perplesso dicendo: «Posso farlo in coscienza?». «Sì, sì – gli avevo risposto – il Signore è la mia forza!».
Quando, bussando alla porta della clausura, la Madre abbadessa mi chiese in latino: Ad quid venisti? – A quale scopo sei venuta?, con piena consapevolezza risposi: Ad immolandum veni. Sì, sapevo e volevo che la mia vita fosse, momento per momento, immolata insieme con quella del Signore Gesù crocifisso per amore, per quel suo “più grande amore” che gli ardeva nel cuore verso tutti gli uomini.