di Gianni Gennari
Ottavo incontro: riprendiamo il cammino per “vedere meglio”, pur con i nostri poveri occhi della mente e del cuore, la realtà del Dio rivelato nella storia ad Abramo ed alla sua discendenza, e poi definitivamente donato come Salvatore in Gesù, Dio e Figlio di Dio. La fede ci dice che Egli “si è fatto uomo”, incarnato nel grembo materno di una donna di Nazaret di nome Maria, è morto crocifisso e risorto per noi come Messia e Salvatore che uscendo dalla storia da Lui redenta ci ha donato lo Spirito Santo, creando così un Popolo definitivamente chiamato a salvezza per grazia e misericordia, quel “Popolo di Dio” che noi chiamiamo “Chiesa”.
Questa è realtà visibile, storica e istituzionale e insieme invisibile, celeste e misteriosa, noi, con i Padri della Chiesa e con secoli di insegnamento dottrinale la chiamiamo Corpo di Cristo, e i suoi confini visibili si presentano nella Chiesa cattolica guidata da Pietro, mentre quelli ugualmente reali, ma misteriosi, che le danno anche il nome di Corpo Mistico di Cristo, sono segnati solo dalla Misericordia di Dio stesso, Creatore, Salvatore e Giudice dell’universo, Padre, Figlio e Spirito Santo.
Sintesi del cammino già percorso
Dio dunque, che nessun uomo ha mai visto, ha parlato ad Abramo e Mosè, e ad un certo momento della storia umana nel Patto dell’Alleanza si è autonomamente rivelato con “le Parole” (haddebarìm), che nella testimonianza del tempo sono state dieci: le prime due affermano la sua unicità assoluta: “Io sono il Signore, Dio tuo! Non avrai un altro dio contrapposto a Me!” e “non ti farai immagine” di Me, perché l’immagine è un idolo muto, che non parla e non manifesta la sua volontà, mentre Io parlo, e tu devi ascoltare la mia voce che ti ricorda che la mia vera immagine sei tu, uomo vivo, creato per amore gratuito, “nostra immagine somigliantissima” (Gen. 1, 26), e niente altro.
Ecco allora che il terzo comando – per il nostro Catechismo il secondo, per la nota e dolorosa vicenda storica della controversia sulle immagini che consigliò di omettere il testo del secondo comando (Es, 20, 4), generando equivoci anche giunti fino a noi – è quello nel quale il Signore non parla più di Sé a Mosè e al suo popolo, ma parla di noi, uomini immagine vera di Lui, creatore e salvatore nella storia. E così il terzo comando del testo biblico (Es. 20, 7) è quello che intima all’uomo del Patto di non usare il nome di Dio per ingannare il prossimo, per mandarlo “nel vuoto”, “invano”: Dio non ha nulla a che vedere, e lo proclama, con ogni uso del suo Nome che offende, tradisce, umilia e disprezza l’uomo…Seguono gli altri comandi, nel testo originale 7, nel nostro Catechismo, visto sopra, logicamente 8: in queste altre “parole” (in ebraico “haddebarìm”) il Signore ricorda al Suo Popolo i doveri verso la realtà creata, in primo luogo gli uomini: il riposo necessario perché uomini e animali non siano abbrutiti dal lavoro, l’onore verso padre e madre, il divieto di uccidere l’innocente, di tradire il patto d’amore tra uomo e donna, di privare il prossimo delle cose sue con il furto, di ingannarlo con la menzogna, e infine di desiderare con volontà di appropriarsene le cose altrui, tra le quali nel testo originale biblico è inserita anche la donna – così in quel tempo era in tutte le civiltà orientali, e così è rimasto per tanto, troppo tempo anche altrove, e vicinissimo anche a noi, Ndr – mentre nel testo del nostro Catechismo ad essa è riservato il decimo comandamento, che riempie definitivamente il vuoto creato dalla cancellazione del comando della proibizione delle immagini…
Questo è il Dio che si rivela ad Abramo chiamandolo ad uscire dalla sua terra e che poi formalizza chiamata ed alleanza con Mosè, offrendogli il Decalogo che sarà la carta identitaria del Popolo della elezione e della salvezza nella storia…Questo Dio nei secoli ha manifestato la Sua volontà e rivelato le sue caratteristiche, dopo la Toràh, la Legge, espressa nei primi 5 libri (chiamati appunto “Pentateuco”, che include il numero 5) in altri testi che per noi cristiani compongono “Primo Testamento”: Toràh (Legge), Nevihìm (Profeti) e Qetuvìm (Scritti).
Cosa è “conoscere Dio” nella rivelazione? Una prima sorpresa.
A questo punto la domanda vera è questa: come si conosce, questo Dio rivelato nel Patto, nei Profeti e negli Scritti, come si riconosce la sua Signoria, come ci si avvicina a Lui, come si è fedeli al Patto che culmina nel Sinai e nelle Dieci Parole che segnano la storia della religione ebraico-cristiana, che è la nostra fino a 2000 anni dopo Gesù di Nazaret, circa 4000 dopo Abramo e circa 3000 dopo Mosè? E ancora, visto che siamo cristiani, come si colloca Gesù di Nazaret nei confronti della rivelazione precedente, ad Abramo e Mosè e nei Profeti biblici?
Con le premesse già lette sulla realtà delle “Dieci Parole” proviamo a vedere come nella stessa Scrittura si parla della vera conoscenza di Dio, del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, del Dio rivelato a Mosè sul Sinai, del Dio che ha condotto il suo Popolo nella Terra promessa ai suoi padri, e che “ha parlato per mezzo dei Profeti”. Viene in mente il passo iniziale della Lettera agli Ebrei, “In molti modi, e in successive fasi Dio nel passato si è rivelato…” E proprio questo “passato”, e cioè il modo con cui Egli si è rivelato è l’oggetto, ora, della nostra ricerca, che ci condurrà ad una sorpresa, che in realtà non dovrebbe esserci…
La sorpresa è dovuta al fatto che il termine conoscenza di Dio, nel Primo Testamento, è usato in un modo inatteso. Le citazioni sarebbero innumerevoli, ma iniziamo dalla seguente, chiarissima e solenne anche nella formulazione iniziale, che richiama lo “Shemàh Ishraèl” – Ascolta Israele! – che è il ritornello dei passi decisivi della rivelazione: “Ascoltate la parola del Signore, figli di Israele, perché il Signore ha da lamentarsi con voi. Non c’è infatti sincerità, né compassione in mezzo a voi, né conoscenza di Dio (Nb: “conoscenza di Dio”!) nel paese: si spergiura, si mentisce, si uccide, si ruba, si commette adulterio…” (Osea 4, 1-2)
Ecco i comandamenti, cinque in fila uno per uno, come assenza della “conoscenza di Dio”. Conoscere Dio è rispettare le sue “Parole”. Sempre Osea, in precedenza, aveva parlato al popolo in nome di Dio stesso: “Ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella compassione e nell’amore, io ti fidanzerò con me nella fedeltà e così tu conoscerai Jahvè” (Os. 2, 21-22). Strana per noi, forse, questa equazione: giustizia, diritto, compassione e amore sono “conoscenza di Dio”.
E perciò il motivo torna in altri testi profetici, si potrebbe dire in tutti, anche nei testi che parlano del futuro Messia, in particolare quindi in quelli di Isaia: “Egli (il Messia promesso, Ndr) difenderà con giustizia la causa dei poveri, giudicherà con diritto gli oppressi del paese La sua parola sarà una frusta che percuoterà il violento e l’ingiusto… La giustizia sarà la fascia dei suoi fianchi, l’integrità la cintura della sua vita” (11, 4). Con seguito dopo poche righe, 11, 9: “Non ci sarà più inganno, né violenza su tutto il sacro monte, perché la terra sarà piena della conoscenza di Dio (Nb!) come le acque riempiono il mare”. Dunque una prima conclusione: praticare la giustizia e il diritto, la compassione e la misericordia, non uccidere, non mentire, non ingannare il prossimo ecc., che paiono cose che non riguardano Dio, sono il modo – nota bene: “il”, non “un” – di conoscere veramente quel Dio che si rivela nel Decalogo, e nei Profeti.
E’ un primo grande passo per andare avanti con le giuste indicazioni. Le conseguenze saranno importanti, e passando per altri testi del Primo Testamento e poi del Nuovo e definitivo, fino a noi, oggi e qui… Per ora basti aver accennato al fatto che il Dio della rivelazione chiede di essere conosciuto passando essenzialmente per il suo “ri-conoscimento” nella realtà del prossimo, vera immagine di Dio vivente. E il tema avrà la sua sintesi assoluta in Gesù e nel discorso sul Giudizio finale (Mt. 25): “Quello che avete fatto ad uno di questi piccoli, lo avete fatto a Me!”. Alla prossima…