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di Gianni Gennari

Siamo dunque, finalmente – visto il lungo cammino già fatto in precedenza – ad un punto decisivo, che però è solo il primo, e sarà seguito da molti altri: Dio si è rivelato ad Abramo, attirandolo fuori dalla sua patria di origine e facendogli iniziare una risposta alla promessa, e nella fede Abramo “ha creduto”, è partito, ha vissuto la sua avventura di patriarca del suo popolo detto appunto della promessa…
Così il racconto biblico è giunto a Mosè, cui sul monte si è rivelata la nuova “presenza” divina, che si conferma e poi lo invita a nuova opera: “Io sono con te!”, e ora tu devi liberare il mio popolo, che è anche il tuo, dalla servitù egiziana. Secoli di storia raccontati così, in poche pagine che esprimono la coscienza di una promessa e di un cammino reale vissuto da uomini come noi…
Ecco dunque che finalmente, e ancora sul monte, questo Dio nuovo, Jahvè, si presenta a Mosè e parla. Lui parla, ma Mosè non vede il suo Dio, ma lo ascolta…Questa caratteristica è fondamentale: il Dio di Israele non è un Dio che si mostra, che si fa vedere.

E questa caratteristica – lo vedremo a lungo – è fondamentale anche fino alla nostra fede cristiana. Del resto – ma ci torneremo su abbondantemente – all’inizio del Vangelo di Giovanni leggiamo la dichiarazione netta: “Dio non lo ha visto mai nessuno…”.
E nella sua prima Lettera ancora Giovanni dice di nuovo: “Dio non lo ha visto mai nessuno…” Sarà interessante vedere, come faremo a lungo in seguito – ma chi legge può andare subito a vedere per curiosità – come le due frasi, identiche, abbiano un seguito diverso, ma non contraddittorio, e impegnativo in due sensi, anch’essi diversi, e non certo contraddittori…
Torniamo a noi, e a questo punto. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Mosè – per ora ci fermiamo qui, ma è lo stesso Dio che poi si rivelerà e sarà visto in Gesù – non è un Dio che si vede, ma è un Dio che si ascolta. Fondamentale, qui ed ora, basterà solo questo testo del Deuteronomio (4,12) che condensa questo spunto: “Il Signore vi parlò dal fuoco, avete udito il suono delle sue parole, ma non vedevate alcuna immagine: vi era soltanto una voce!”
Ecco dunque che la parola d’ordine, da allora in poi, non è “apri gli occhi, Israele”, ma “apri le orecchie”, cioè “Ascolta, Israele!” (Shemàh, Ishraèl!).
è una radicale differenza dagli dei pagani, che sono raffigurati nelle immagini degli idoli religiosi: loro si vedono, ma non parlano, e la cosa ha delle conseguenze fondamentali.
Agli dei che non parlano – la Bibbia li chiama “idoli muti” – i pagani parlano chiedendo quello che desiderano, e sperando che gli dei li esaudiscano, p. es. chiedono con il mito la spiegazione dei fenomeni naturali che non capiscono, e con il rito (vedi quanto scritto in precedenza) chiedono la protezione dagli effetti sconvolgenti di eventi e fenomeni che li travolgono…
Il Dio di Mosè, e del popolo di Abramo, quello della promessa e poi dell’Alleanza, invece parla. Egli non si rivela in immagini che si vedono, ma nella voce che si ascolta.
A questo punto sorge la domanda spontanea: perché il Dio di Abramo e di Mosè non si rivela in immagini?
E viene spontanea, visto un certo modo di pensare Dio proprio della filosofia antica, la risposta seguente: Dio non si rivela in immagini perché è “spirituale”, non è materiale, e perché è “trascendente”, non è nel contesto di questo mondo, in basso, ma “nell’alto dei Cieli”.
C’è del vero, in questa risposta, ma non è quella esauriente. Infatti a guardare bene i testi biblici talora pare proprio che si sottolinei anche una certa “materialità” e “presenza” di Dio.
Nel libro della Genesi (3, 10) come in metafora, Adamo dice di aver sentito il rumore dei passi di Dio che arrivava e, accorgendosi di essere nudo, si è come vergognato… Nel libro dell’Esodo (33, 20) leggiamo che “nessun uomo può vedere il volto di Dio e restare vivo”, ma subito dopo (33, 23) si legge: “tu vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere”…
Si legge altrove che Dio cammina come sulle cime degli alberi, ed altre immagini suggestive dicono che non c’è una idea filosofica della trascendenza immateriale, ma quella di una presenza misteriosa, ma certa (“Io sono con te!”) e di una vicinanza che salva…
Non mi fermo, qui, a discutere del Dio dei filosofi, del Dio pensato dai sapienti della storia, il Dio motore immobile di Aristotele, l’Essere perfettissimo concepito appunto sulla scia della filosofia greca e dimostrato razionalmente con le cinque vie di Tommaso, o con la prova ontologica di Anselmo d’Aosta, o con gli argomenti diversi di Cartesio, con il Dio-natura di Spinoza, con l’esigenza morale di Kant o con lo Spirito assoluto dei filosofi idealisti. Dico che il Dio rivelato nella Scrittura e presente incarnato in Gesù di Nazaret è quello che qui ci interessa, e dunque questo Dio, il Dio che si rivela ad Abramo e poi a Mosè non si vede, ma si ascolta.

Il Dio che parla:
l’alleanza delle “Dieci Parole”
Ed ecco che siamo portati subito a pensare che il Patto dell’Alleanza perenne, quello che noi chiamiano dei “Dieci comandi”, nella realtà del linguaggio biblico si chiama delle “Dieci parole”…
Nella Bibbia abbiamo due versioni di quelli che chiamiamo i Dieci comandamenti, che in pratica si equivalgono, e qui utilizzo la versione corrente del nostro Catechismo, senza badare alle sfumature di diverse traduzioni sia dall’ebraico che dal greco del Nuovo Testamento quando si rievocano i comandi biblici a Mosè.
Primo comando: l’unicità di Dio contrapposto agli idoli
Il primo comando è fortemente affermativo: “Io sono il Signore, Dio tuo, e tu non avrai alcun altro Dio contrapposto a me!”
E l’affermazione della “unicità” divina. Il monoteismo ebraico radicalmente nuovo contesta ogni politeismo antico, praticamente universale in tutte le religioni primitive, che avevano sì, una divinità superiore alle altre, p. es. il Dio Sole, o il Giove greco o Iuppiter latino, o altro nei popoli diversi.
Come tra parentesi, qui, mi piace ricordare che dal punto di vista filosofico l’unicità di Dio parrebbe assolutamente necessaria, e infatti San Tommaso d’Aquino (1225-1274), grandissimo teologo, ma anche filosofo cristiano per eccellenza, quando tratta di Dio in ambito filosofico ne dimostra l’unicità in modo superlativamente secco.
Può sembrare una curiosità troppo raffinata, ma non lo è: troviamo ancora oggi coloro che pensano ad un pluralismo di divinità immaginate con la fantasia scambiata per pensiero sapiente. Ecco in pillole riassuntive il pensiero del grande Tommaso. I filosofi arrivano a definire Dio come “puro Essere”, ma il puro Essere non può essere che Uno solo.
Se infatti ce ne fossero due, dovrebbero essere diversi in qualcosa, ma allora non sarebbero più ‘puro Essere”, ma puro Essere con qualcosa di più che li fa distinguere, e perciò questo Dio come puro Essere non può essere che Uno.
E’ anche il primo comando, la prima parola di quello che chiamiamo Decalogo, che vuol proprio dire “dieci parole”, ma come vedremo nel prossimo incontro questa affermazione della unicità di Dio che “c’è” e “parla”, contrapposto ad ogni idolo muto, che “è nulla”, vanità e illusione, come spesso dicono i testi biblici, aprirà la strada non ad una serie di pensieri astratti, ma alle altre “nove parole” bibliche, che ne sono la conseguenza salvifica, da Mosè ad oggi, ed anzi anche da prima di Mosè, perché il Dio rivelato in Cristo è salvezza di ogni umanità, anche di quella vissuta prima di Mosè, come ha benissimo accennato Benedetto XVI di recente parlando di quella che noi diciamo “discesa di Gesù agli Inferi”.
Il primo comando, dunque. Arriveranno anche gli altri nove, e poi ci sarà tanto altro ancora…
Con le scuse per qualche passaggio forse un po’ difficile di queste righe, alla prossima…