Litanie del Sacro Cuore di Gesù
di O. De Bertolis
Pregando con questa espressione, entriamo noi stessi nell’immenso coro del creato, degli angeli e dei santi, che nell’Apocalisse lodano l’Agnello immolato: «A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza nei secoli dei secoli» (Ap 5, 13b). Ci portiamo ai piedi della croce, che è lo sgabello dei piedi del Signore, e, a nome di tutti, proclamiamo, insieme ai serafini e ai cherubini: «Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della tua gloria» (Is 6, 3b).
Del resto, tutto il culto cristiano è essenzialmente lode all’altissimo Padre, al Cristo Signore, allo Spirito consolatore, e questa litania riassume e concentra in sé ogni cosa, poiché chi onora il Figlio, onora Colui che lo ha mandato.
Ma che cosa significa lodare? La lode è un’apertura dell’anima, un allargarsi dello Spirito, nasce dall’esperienza di essere davanti a qualcosa di più grande di noi, di una realtà che ci supera. La lode sgorga quando contempliamo qualcosa che non ci aspettiamo, che non ci meritiamo, qualcosa che ci è offerta gratis e che nella sua bellezza supera ogni nostra aspettativa: solo questo apre “dal di dentro” il cuore, lo fa fiorire uscendo da se stesso. Diamo lode al Cuore di Cristo quando contempliamo che davvero i suoi pensieri durano di generazione in generazione, per salvare dalla morte i suoi figli e nutrirli in tempo di fame. E quali sono i suoi pensieri? Sono tantissimi, tutti raccontati nelle Scritture, e resi presenti al nostro cuore dallo Spirito Santo, ma io ne ricordo solo qualcuno.
Così, a mio parere, il primo e fondamentale è che ha ucciso la morte morendo lui stesso: di fronte all’Agnello immolato contempliamo e ci stupiamo di fronte a Colui che morendo ha distrutto la morte. Lo stupore fiorisce di fronte al fatto che Colui che è più grande di me si è fatto piccolo come me, e che ha usato, per sconfiggere il diavolo che ha introdotto la morte nel mondo, la sua stessa arma, quella con la quale da sempre toglieva la vita ai figli dell’uomo. Ha umiliato se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte più infamante, quella della croce. Quella che per me è un’ineluttabile necessità, lui l’ha invece scelta e ricercata, perché in quel luogo di solitudine e di abbandono tutti noi, che ci entriamo sicuramente, potessimo trovare Lui. Poteva “non sporcarsi le mani”: è invece sceso con noi nel sepolcro. Per questo dobbiamo dire che non solo è morto “per me”, nel senso di “a mio favore”, ma anche “al posto mio”, poiché ha preso su di sé quel che toccava a me, per prenderne Lui stesso il peso.
Il secondo suo pensiero è che ha accolto in se stesso l’inimicizia: il peccato, proprio di tutti gli uomini. Lui lo ha voluto non punire, ma accettare, accogliere fisicamente in sé, con quel colpo di lancia: e così ha estinto in se stesso l’inimicizia, lasciandosi umiliare, tradire, abbandonare, e tutto questo anche prendendolo da me. Ha voluto che il suo Cuore fosse aperto non dai meriti di alcuni giusti eccezionali, ma dal peccato, che è proprio di ognuno. Così il cantico di Mosè dice: «Voglio cantare in onore del Signore perché ha mirabilmente trionfato, ha gettato in mare cavallo e cavaliere» (Es 15, 1b). Così, con la sua umiliazione, e non altrimenti, ha voluto uccidere in un colpo solo il peccato e la morte, privando così il diavolo del suo potere: «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3, 23-24). Di qui la lode, davanti all’Agnello immolato: «O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio» (Rm 11, 33a). San Francesco lodava Cristo Signore dicendo: «Ti lodiamo, Cristo, e ti benediciamo, perché con la tua santa croce hai redento il mondo»; cioè non con la tua gloria, con i tuoi miracoli di potenza, ma con la tua umiliazione, e quella più grande di tutte, la morte. Qui impariamo anche noi a salvare il mondo facendoci più piccoli, e non più grandi.
Il terzo suo pensiero è che quanto ha ricevuto dal Padre, cioè lo Spirito che dà vita, lo dona anche a noi, e così ci dona il Padre stesso: «l’amore con il quale mi hai amato sia in essi, e io in loro» (Gv 17, 24). Siamo infatti non solo di fronte alla Vittima immolata, al giusto da noi schiacciato, ma al Vivente che ci vivifica: Egli comunica a noi, ai nostri corpi, al nostro spirito, alla nostra anima, la sua stessa risurrezione, ci dona l’amore del Padre che «perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie, salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia. Egli sazia di beni i tuoi giorni, e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza» (Sal 103, 3-5). Insomma, il Risorto ci dona la sua stessa vita, che vince e assorbe la nostra morte e il nostro peccato. Paolo chiama tutto questo «adozione a figli»: ormai chi guarda a Lui, e riconosce che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui ed egli in Dio (1 Gv 4, 15). In tal modo il credente può dire: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).