di Eraldo Affinati
Il maestro non può limitarsi a stare da solo di fronte agli alunni. Se non ha il conforto del cosiddetto villaggio educativo che dovrebbe sostenerne l’azione, rischia di non incidere come dovrebbe. Oggi purtroppo molte famiglie si sfaldano, non tutte per fortuna, e i ragazzi percepiscono una frana sociale che li riguarda in prima persona.
Non si tratta, come sappiamo, di una questione legata in modo esclusivo alle situazioni più disagiate, anche se nelle periferie la mancanza di puntelli interiori si fa sentire con forza maggiore, creando i presupposti per reazioni violente nelle personalità fragili.
La recente crisi nata dalla pandemia ha tuttavia offerto una possibilità nuova di intervento pedagogico. Costretti al muro della solitudine informatica, ci siamo resi conto del valore insostituibile della relazione personale; ma questo non è sufficiente: dovremmo anche capire quanto sia rischioso che altri la rappresentino per noi. Nelle condizioni estreme a cui il virus ci ha ricondotto, abbiamo percepito meglio i fondamenti essenziali. Stiamo attenti a non dimenticarlo. E cerchiamo di registrare tale consapevolezza, in modo che non venga cancellata in futuro. Non possiamo considerarci padroni del mondo: in tale prospettiva la preghiera di papa Francesco nella piazza deserta di San Pietro, forse l’inquadratura che più di tutte resterà nei manuali di storia, intercetta persino la coscienza del non credente, proprio nella suggestione leopardiana della superbia umana da sconfiggere. Così lo Gnomo compreso nell’omonima Operetta morale anticipa di due secoli la dichiarazione del pontefice: «Essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli». Dobbiamo tornare a studiare l’antica scienza delle reciproche interdipendenze, sottraendo la “fratellanza” ad ogni manipolazione ideologica. Ci sono altre parole da riverniciare: ad esempio, non è stato forse il sentimento comunitario delle nostre giornate recluse, cresciuto come una pianta selvaggia sul crinale dell’abisso, l’unica credibile forma di “patriottismo” che ancora possiamo concederci?
Il coronavirus, come l’amazzone dipinta dal Doganiere Rousseau nel quadro La guerra, in camice bianco che impugna la spada e cavalca il puledro volando sui morti aggrovigliati, azzera ogni altro argomento riportando tutto alla radice vitale primaria che sentiamo minacciata. è stata una strage, non solo dei corpi, anche delle menti: come non percepire la strumentalità di molti dibattiti che hanno animato le più recenti stagioni? Eppure dobbiamo restare fiduciosi: non tanto per noi, quanto per chi verrà dopo. In particolare il compito della scuola è quello di mettere a frutto la consapevolezza di coralità cresciuta durante la crisi nel tentativo di ritrovare le ragioni meno effimere del nostro stare insieme.
La didattica a distanza, quando è stata vissuta nella forma migliore, ha consentito di scoprire gli ingranaggi della valutazione con il risultato di superare la deleteria finzione pedagogica: far finta di spiegare, far finta di ascoltare. Lo spettro del virus, scardinando la struttura scolastica, ha finito per rendere più autentici i rapporti personali fra giovani e adulti, uniti dalla comune, seppur proporzionalmente diversa, vulnerabilità, spingendo il docente a percepirsi come dovrebbe: non il giudice che aspetta al traguardo i concorrenti per registrare chi vince e chi perde, bensì una guida amica ma autorevole impegnata a realizzare l’obiettivo stabilito.
Inutile negare che il periodo di interruzione coatta sia stato traumatico per i bambini e gli adolescenti. Anche i più inquieti e scalmanati, i quali all’inizio avevano festeggiato la chiusura delle scuole, a lungo andare hanno dovuto giocoforza ammettere che, restando a casa da soli di fronte al computer, si stavano annoiando. Il compito degli educatori deve riprendere proprio da qui: se non dimenticheremo ciò di cui in molti abbiamo sentito la mancanza, rapporti sociali, promiscuità, animazione, sorrisi, abbracci e pacche sulle spalle, persino dalla tragedia del Covid-19 avremo imparato qualcosa.