La morte cifra dell’esistere umano
di Giovanni Cucci
Negare il pensiero della propria morte pone gravi interrogativi all’uomo e al filosofo: nell’evento-morte, infatti, non solo l’individuo deve rinunciare al suo anelito di vita, ma la stessa pienezza dello Spirito Assoluto viene a incrinarsi.
Nelle riflessioni verso la fine di Benedetto Croce, specie di fronte alle atrocità del secondo conflitto mondiale, traspare il ruolo irriducibile che il singolo ha nella storia, con i suoi desideri, le sue sofferenze che non possono essere riassorbiti dal Tutto che lo costituisce. Nel Soliloquio, una sorta di testamento spirituale, il filosofo abruzzese descrive con dignità e consapevolezza il proprio stato d’animo di fronte alla morte, rinunciando alla possibilità di capire il significato della sua vicenda temporale: «Qualche volta agli amici che mi rivolgono la consueta domanda: “Come state?”, rispondo con le parole che Salvatore di Giacomo udì dal vecchio duca di Maddaloni, il famoso epigrammista napoletano, quando, in una delle sue ultime visite, lo trovò che si scaldava al sole e gli rispose in dialetto: “Non lo vedi? Sto morendo” […]. Malinconica e triste che possa sembrare la morte, sono troppo filosofo per non vedere chiaramente che il terribile sarebbe se l’uomo non potesse morire mai, chiuso nel carcere che è la vita, a ripetere sempre lo stesso ritmo vitale».
In questa pagina toccante emerge di nuovo lo iato tra il «ritmo vitale» dell’uomo concreto, che «si esaurisce», e il Tutto da cui è chiamato a separarsi. È proprio la morte a dire che tra i due aspetti non può darsi identità. Nicola Abbagnano, commentando il Soliloquio, ha acutamente rilevato questa dissimmetria: «Chi è che, in Croce, sta morendo? Non certo l’opera di Croce che è, come un acquisto per sempre, né lo Spirito del mondo che ne è il vero autore; chi può morire e come? Croce stesso risponde a questa domanda: muore l’individuo, che possiede il ritmo vitale “solo nei confini della sua individualità”, e al quale “è assegnato un compito che si esaurisce”». Di fronte alla morte, il singolo si sente spogliato di tutto e defraudato di ciò che ha di più caro.
Non diversa è la prospettiva di un’altra celebre proposta filosofica, in auge fino a qualche decennio fa: il marxismo. Per Marx l’individualità deve scomparire a favore del collettivo che lo oltrepassa e che solo permane. Eppure, come per Croce, anche Marx deve constatare che la morte è solo dell’individuo, che contraddice la pretesa fusione tra individuo e collettività: «La morte in quanto è una dura vittoria della specie sull’individuo e sulla sua unità sembra in contraddizione con quello che si è detto…». E in effetti proprio di contraddizione si tratta, perché se il soggetto fosse davvero una cosa sola con il genere, alla morte del singolo dovrebbe seguire la morte del genere. Ciò che invece non accade. Per questo Marx parla di una «dura vittoria» dell’uno sull’altro, che evidenzia il volto disumano del morire. Si tratta di un testo significativo, proprio perché è l’unico (se si escludono i materiali preparatori della tesi) in cui il teorico del «comunismo scientifico» riflette sulla morte, riconoscendone l’insanabile aporeticità nei confronti della concezione dialettica della storia. Ma in tal modo l’uomo viene ridotto a mero oggetto, riconfermando per altra via l’alienazione commerciale della società capitalista, da cui il marxismo vorrebbe prendere radicalmente le distanze.
Questa mancata attenzione al singolo che muore avrà gravi conseguenze storiche e politiche, portando a giustificare l’uccisione di milioni di persone in nome della necessità storica e della ragion di Stato, inevitabile conseguenza della politica rivoluzionaria. In questa visione, chiusa a qualsivoglia prospettiva trascendente, viene cancellata, insieme alla morte, anche l’essere umano, ridotto a un mero ingranaggio del sistema.