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di Mare Anna Maria Cánopi

I testi proposti, anche del prossimo numero, sono parte del programma annuale 2019 concordato già con Madre Cánopi e presi da registrazioni di Lectio che aveva tenuto.


Aprendo la Sacra Scrittura nelle pagine del libro del profeta Geremia, ci troviamo di fronte ad una situazione di inaudita attualità. Il popolo di Israele – e noi possiamo mettere il nome di tanti altri popoli del Medio Oriente, dell’Africa, dell’America latina… – vive un momento drammatico: privo di una guida saggia e fedele, è deportato, sottomesso a potenze straniere, trascinato all’idolatria. In una parola, spezza l’alleanza con il Signore, solennemente sancita da Mosè e più volte rinnovata lungo il cammino dell’Esodo fino all’ingresso nella terra promessa e oltre.

Che cosa fa, dunque, il Signore, di fronte a questo popolo di dura cervice? Con la potenza della sua parola suscita un profeta e gli affida una missione per quel tempo: una missione difficile per orecchie che non vogliono ascoltare, ma una missione necessaria, perché nulla rimanga intentato da parte di Dio per salvare il suo popolo, per salvare l’umanità.

In principio – prima di ogni altra cosa, prima della presa di coscienza da parte di Geremia della gravità dei tempi, prima di un suo progetto personale – risuona nella sua vita la parola del Signore. Geremia è l’uomo della Parola: è la sentinella vigilante che ascolta la Parola, si lascia interpellare da essa e la fa risuonare.

Il libro di Geremia comincia subito con la vocazione e la chiamata del profeta da parte di Dio. Non possiamo leggere questo brano senza sentirci personalmente coinvolti, perché ogni uomo che viene al mondo è chiamato all’esistenza con una missione, per un disegno divino.

Senza nessun “preavviso” il Signore si rivolge a Geremia e si presenta come un Dio che conosce l’uomo fin dall’eternità e nelle fibre più profonde:

«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,

prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;

ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5).

Come Abramo, come Mosè presso il roveto ardente, come Saulo lungo la via di Damasco, Geremia ascolta le parole che danno un orientamento decisivo alla sua vita. 

E qual è la sua reazione? Come Mosè e come molti altri “inviati”, egli è colto da sgomentato. Dio, infatti, lo manda – a suo nome – ad un popolo ribelle, continuamente recidivo: un popolo che non ha saputo far tesoro degli errori commessi, che non sa leggere i “segni” dei tempi. Proprio per questo ha bisogno di un “profeta”, di un uomo che si faccia portavoce di Dio presso gli uomini, per manifestare loro la volontà di Dio, il disegno di Dio. E il disegno di Dio è sempre per la salvezza degli uomini, ma non è mai a buon mercato, mai a prezzo di compromessi. Ecco, perché è arduo essere profeti, allora come oggi.

Geremia si sente impari a tale compito, si ritiene – e come non dargli ragione? – del tutto incapace di svolgere la missione. Con piena libertà, apre al Signore il suo cuore, gli manifesta il tumulto che la Parola ha generato in lui. Dice il testo biblico:

«Risposi: “Ahimè, Signore Dio!

Ecco, io non so parlare, perché sono giovane”» (v. 6).

Ogni espressione andrebbe meditata a lungo. Innanzitutto c’è il verbo: Risposi. È il verbo dell’uomo che si lascia interpellare e parla dopo aver ascoltato; è il verbo dell’uomo che non presume di sapere già tutto di sé, ma che si mette a disposizione di Dio e gli permette di intervenire nella sua vita. San Benedetto inizia la sua Regola proprio con l’esortazione: Ascolta, figlio.

E che cosa risponde Geremia? Dalla sua bocca esce un’esclamazione di sconforto subito seguita da una ferma professione di fede. Geremia si sente inadeguato, schiacciato – ahimè – e tuttavia continua a credere che chi gli ha parlato è il Signore Dio. Non dubita neppure per un istante. Egli crede fermamente che la parola ascoltata – la vocazione ricevuta – viene da Dio. Come, dunque, rifiutarla? Eppure, come aderirvi? «Ecco, io non so parlare, perché sono giovane» (v. 6). È l’esperienza dell’inadeguatezza, che si fa tanto più cocente, quanto più si ha il senso di Dio.

Dio stesso, allora, conforta il suo profeta. Come Padre premuroso, lo rassicura; non ridimensiona né ritratta la sua chiamata, ma gli offre la chiave per viverla senza sentirsene schiacciato e senza essere tentato di tirarsi indietro.

Di fronte alla perplessità di Geremia, il Signore oppone un «ma», che capovolge la situazione: «Ma il Signore mi disse: “Non dire: Sono giovane”» (v. 7). So bene che tu sei giovane, che sei inesperto nel parlare: ti conosco fin dal grembo di tua madre, anzi, ancor prima che tu nascessi… E tuttavia, non preoccuparti di questo. Non temere! Proseguendo, il Signore svela a Geremia – e a noi – il «segreto» per vincere ogni paura, quel «segreto» che la Vergine Maria ben conosceva: l’obbedienza alla volontà di Dio.

«Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò e dirai tutto quello che io ti ordinerò» (v. 7).

Il profeta – e tale è ogni cristiano in forza del Battesimo – non deve inventare nulla, ma semplicemente andare là dove il Signore lo manda e fare ciò che gli comanda.  Gesù stesso ha detto di sé: «Non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato» (Gv 8, 28).

In questa obbedienza si ricostituisce l’amicizia tra Dio e l’uomo, spezzata dal peccato. E là dove c’è amicizia con Dio, ogni paura è vinta: «Non aver paura di fronte a loro, perché io sono con te per proteggerti» (Ger 1,8).

Gesù stesso ha dichiarato: «Colui che mi ha mandato è con me: non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 8, 29).

Il profeta può allora affrontare con fiducia la sua missione – che rimane ardua – perché il Signore è con lui e lo rende idoneo al compito che gli affida. 

«Il Signore stese la mano

e mi toccò la bocca,

e il Signore mi disse:

“Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca”».

Il Signore purifica le labbra del profeta, perché da essa non escano parole sconvenienti, cattive, mondane, parole che sono «chiacchiere», direbbe papa Francesco. Ma ancora non basta: gli dona le «sue parole». E sono parole che bruciano: parole di edificazione, ma anche di demolizione, parole che confortano, ma anche richiamano e correggono. Solo queste il profeta deve avere nel cuore e sulle labbra, solo queste deve custodire e annunziare, per quanto scomode possano essere.

Ecco, l’importanza per ogni cristiano di formarsi sulla Parola di Dio, nutrirsene ogni giorno, tutto decidere e tutto fare alla sua luce, e non seguendo la mentalità del mondo.

Solo dopo avergli fatto dono della «parola», il Signore dichiara apertamente al suo profeta quale sarà la sua missione. Prima sarebbe stato un peso troppo grave da sopportare: viene, infatti, costituito profeta «per sradicare e demolire, / per distruggere e abbattere, /per edificare e piantare» (v. 10). Colpisce la martellante sequenza dei verbi: quattro verbi – quattro azioni – di distruzione per giungere alla costruzione. L’insegnamento è chiaro: non può crescere nulla di valido e di vero, se non si ha il coraggio di sradicare il male. Se il terreno non è arato, se le spine non sono tolte, il seme soffocherà.

Con un atto di fede radicale, Geremia accetta la propria missione. Egli – scrive Bonhoeffer – «si sa preso da Dio e chiamato in un momento determinato, sconvolgente della sua vita, ed ora non può più fare altro che andare in mezzo agli uomini e annunziare la volontà di Dio. La vocazione è diventata il punto di svolta della sua vita, e per lui c’è non c’è altra via che seguire questa vocazione, anche se dovesse portarlo alla morte» (Conferenza, Barcellona 1928).

Prima di entrare nel vivo del ministero, Geremia riceve ancora, da parte di Dio, un duplice segno, presagio della fecondità e del “prezzo” della sua missione. Davanti a lui, ecco apparire due simboli. E il Signore lo interroga: che cosa vedi? Vede un ramo di mandorlo e vedo una pentola bollente (cfr. Ger 1,11ss). Tu vedi bene, soggiunge il Signore. E, come hai visto, così devi fare: non temere di versare la “pentola bollente”, richiamando a conversione, senza paura, senza compromessi. Non temere, anche se dovrai soffrire molto per la parola ed essere considerato “profeta di sventura”, imprigionato, condannato; non temere, «perché – dice il Signore ribadendo la sua promessa – io sono con te per salvarti» (Ger 1,19).

Allora la “Parola” fiorirà.

Il profeta non si stancherà davvero di richiamare il popolo ribelle:

«Renditi conto e prova quanto è triste e amaro

abbandonare il Signore, tuo Dio» (Ger 2,19). Eppure le sue parole cadono a vuoto ed egli finisce i suoi giorni «nella vergogna» (Ger 2,18). Fallimento totale. Come Gesù in croce.

Ma – come ha promesso – Dio vigila sulla sua parola per realizzarla (cfr. Ger 1,11). Commentando questo passo, sant’Ambrogio scrive: per quanto i profeti abbiano profetato e sofferto, tutto «sarebbe stato insufficiente, se non fosse venuto in terra lo stesso Gesù ad addossarsi le nostre debolezze, l’unico che non poteva essere stancato  dai nostri peccati e le cui braccia non vacillassero; egli si abbassò fino alla morte e alla morte di croce,  nella quale, spalancando le sue braccia, rialzò tutto il mondo che stava per perire» (Commento al Salmo 43).