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di Massimo Marelli

«Era una notte incantevole, una di quelle notti che ci sono solo se si è giovani, gentile lettore. Il cielo era stellato, sfavillante, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva involontariamente se sotto un cielo così potessero vivere uomini irascibili e capricciosi. Anche questa domanda è da giovani, caro lettore, proprio da giovani, ma che Dio la faccia sorgere più spesso nell’anima tua! [...] A proposito di persone irascibili e ostinate, non posso non ricordare come mi comportai bene durante tutta quella giornata. Una certa angoscia aveva iniziato a tormentarmi fin dal mattino. A un tratto mi era sembrato che tutti mi lasciassero solo, che tutti mi abbandonassero» (F. Dostoevskij, Le notti bianche, Einaudi, Torino 2014).

L’apertura del romanzo breve di Dostoevskij, Le notti bianche, è forse uno degli incipit più belli che sia stato mai scritto. Egli elabora questo libro – che porta come sottotitolo Memorie di un sognatore – all’età di 27 anni.

La memoria, ora evocata, richiama qualcosa che afferisce al sacro, perché è ciò che viene custodito nel più intimo di sé stessi. Non è semplicemente memoria psicologica di qualcosa che non è più, sebbene abbia un effetto ancora su di noi capace di produrre emozioni. Qui Dostoevskij sta affermando l’essenza stessa dell’uomo: il suo essere memoria (ri-cordo) è presenza del sacro. L’uomo, dunque, non è profano anche se le sue azioni lo possono rendere tale.

L’essere sognatori, poi, rievoca la speranza: infatti, il disilluso non sogna più, non sa più prendere le distanze dalla crudezza della realtà, non la sa vedere con occhi nuovi, limpidi... sognatori appunto.

Per questo sognare appartiene alla giovinezza dell’anima, perché con la senilità si possono anche perdere i sogni, per trattenere nelle mani solo la polvere delle proprie delusioni.

Protagonista o co-protagonista di questo inizio narrativo è la notte. Una notte che il sognatore non teme, perché il silenzio dell’oscurità lo porta naturalmente a volgere lo sguardo verso l’alto, a elevarsi dalle inquietudini dell’animo, per incontrare il cielo trapunto di stelle.

La notte, che ha suscitato i sogni di molte generazioni, paradossalmente oggi, nelle nostre città, viene esorcizzata, avendola resa luminosa come il giorno in modo artificiale, tanto che non si è più capaci di vedere le stelle.

È stata volutamente usata l’espressione che torna nel Preconio pasquale cantato nella santa notte di Pasqua, dove si afferma espressamente: «Haec nox est, de qua scriptum est: et nox sicut dies illuminabitur et nox illuminatio mea in deliciis meis» (Di questa notte è stato scritto: la notte splenderà come il giorno, e sarà fonte di luce per la mia delizia). Qui, però, la luce non è un artificio perché è l’uomo stesso, in Cristo luce del mondo, a essere divenuto tutto luminoso. La notte del peccato è infatti senza stelle perché, lontani da Dio e dal suo sguardo che è salvezza, si perdono tutti i punti di riferimento e l’orientamento della propria vita. La luce pasquale è prima di tutto la luce di uno sguardo che, misericordioso e pietoso, si volge sulla creatura amata per salvarla. La luce pasquale, da cui l’uomo viene tutto illuminato fino a diventare esso stesso luce, è l’amore, che dalla croce, luogo di massima lontananza da Dio, si riverbera su tutta l’umanità e su tutta la creazione perché ogni cosa sia com-presa in essa.

L’inquinamento luminoso delle nostre metropoli ci impedisce di riconoscere le costellazioni dell’universo, di percepirci immersi in un grande silenzio e in una profondissima quiete.

La notte silenziosa – ma non vuota di suono – è riempita di rumori, spesso assordanti, che impediscono all’animo di riconoscere l’alterità e di lasciarla emergere all’orizzonte. Siamo in un mondo sempre più globalizzato, eppure siamo sempre più soli e abitati da paure che tentiamo continuamente di scongiurare con “rituali” notturni che ne ottundano la coscienza, quali per esempio la “movida” della notte o l’happy hour o il drink della sera... Si cerca lo “sballo” come soluzione per superare la caligine del vivere e l’angoscia del vuoto, perché il bisogno di luce è insito nell’uomo che è fatto per la Luce che è Dio. Non a caso il sacramento del battesimo era definito dai Padri della Chiesa come illuminazione, ossia come un venire alla luce della grazia e della comunione con Dio, fino a esserne luminosa trasparenza. Anche l’episodio evangelico della Trasfigurazione annuncia questo mistero di luce che è l’uomo. Infatti, il Signore trasfigurato non manifesta tanto qualcosa di Dio ma la bellezza dell’uomo, ovvero il suo essere luce nella comunione Trinitaria, fonte di ogni chiarità.

Ma, già nel 1848, la solitudine è la paura che abita il cuore di questo sognatore innamorato e lo tormenta: «Una certa angoscia aveva iniziato a tormentarmi fin dal mattino. A un tratto mi era sembrato che tutti mi lasciassero solo, che tutti mi abbandonassero».

Pure abitato da questi fantasmi notturni, il giovane sognatore sa ancora alzare lo sguardo verso il cielo per ammirarvi le stelle e cercarvi un orientamento, ed esse gli appaiono come una realtà (dimensione) fondamentale per la vita dell’uomo.

In latino stella si dice “sidus”, e alle stelle sono legate molte parole della nostra lingua e della nostra esperienza: con-siderare, per esempio, indica la capacità di esaminare con attenzione una realtà in tutti i suoi aspetti, e deduce il suo significato proprio dall’esperienza di guardare insieme, in un solo colpo d’occhio, le stelle del cielo. Oppure, il verbo de-siderare e il suo sostantivo desiderio che indica un moto dell’anima, la cui particella intensiva de - li fa derivare dalla capacità di fissare profondamente le stelle per scorgervi il significato divino delle cose.

Di fronte al miracolo del cielo stellato, il giovane sognatore cerca così il senso della propria vita a partire dai desideri che muovono il suo intimo. Davanti alle stelle sorgono le grandi domande dell’esistenza: qual è il senso della mia vita e su cosa essa si fonda? Io, perché vivo? Per chi vivo? Dove sto andando?

Da queste domande di senso inizia un cammino tormentato che porterà il protagonista a scoprire l’amore… a scoprire di essere amato. Le stelle sono fondamentali per l’uomo simbolico: Dante vi costruisce tutto l’impianto della Divina Commedia come un cammino verso la Vita.

Inferno, purgatorio e paradiso non sono condizioni che attendono l’uomo alla fine della sua esperienza terrena, ma realtà che egli esperisce già mentre entra nella selva oscura dell’esistenza e compie il suo tragitto per uscir fuori (nascere) a riveder le stelle.

Dante delinea attraverso i tre mondi della Commedia delle qualità del cuore: solo affrontando le proprie paure e il male che è dentro di sé, l’uomo può riemergere alla realtà, non disilluso ma ancora sognatore, ossia capace di futuro... trovando questo futuro in Dio (paradiso), dopo aver purificato i propri desideri (purgatorio).

E la domanda esistenziale del sognatore di Dostoevskij, appunto, nasce dallo stupore che sotto un cielo così meraviglioso possa esistere il male (ira e ostinazione), una realtà che non è fuori di lui ma in lui!

Tuttavia, a partire da questa constatazione dolorosa che accende il tormento dell’anima e la percezione dell’essere lasciato solo nel suo male (de-solato), si avvia il suo processo di purificazione e di liberazione e le stelle rimarranno per lui la memoria sacra del suo essere sognatore, cioè del suo essere giovane nell’anima, del suo essere vivo.