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«Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2, 33)

Chiunque abbia avuto, leggendo nei Vangeli, la grazia di mettersi in ascolto dei silenzi di sfan Giuseppe, sa che lui non è una bella statuina del presepio, immobile e decorativa. Era il padre “putativo” di Gesù, ma questo non deve far pensare a un suo ruolo marginale e un po' patetico nella santa Famiglia. Giuseppe ha esercitato la sua paternità a tutti gli effetti. Del resto, anche gli studi psicologici recenti riconoscono che «un padre deve sempre adottare il proprio figlio» (Doltò).

La madre infatti ha un rapporto viscerale, immediato e fisico con il proprio figlio; il padre invece si scopre tale solo quando il figlio viene dato alla luce e, con stupore, è chiamato a far propria questa novità, per farlo “venire al mondo”. Il suo ruolo è il superamento di una distanza, il riconoscimento grato del valore affettivo, religioso e sociale della nuova creatura. Un figlio o una figlia hanno bisogno di due amori incondizionati: quello materno, che è accoglienza, così come si è, e quello paterno, che è fiducia, rischio,  sostegno  e stimolo a mettersi in gioco. La madre accoglie, il padre conduce e spinge fuori; il padre è un paradosso: si realizza pienamente quando è reso inutile, cioè quando il figlio ha imparato a fare a meno di lui. 

Ma come si è manifestata la paternità di Giuseppe? Egli ha dato il nome a Gesù («Maria darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù»  Mt 1, 21), gli ha dato cioè un’identità, l’ha introdotto nella società e nella comunità; gli ha trasmesso la promessa, la legge. Giuseppe ha preso decisioni per i suoi amori e le ha portate fino in fondo, ha saputo dare delle regole e farsi obbedire. Ha insegnato a Gesù i segreti del suo mestiere, la passione e la competenza professionale, e ha goduto quando egli ha manifestato autonomia nei suoi confronti. Gli ha trasmesso il senso del dovere, la responsabilità, la cura delle piccole cose, la misericordia. Nella trama forte e paziente dell’esercizio della sua paternità, Giuseppe ha permesso a Gesù di intravvedere il volto autentico del Padre-Abbà. Gesù, il Figlio di Dio, ha potuto contare sulla mano materna di Maria e sulla guida sicura di Giuseppe. 

Ora, per molti versi, viviamo in un tempo privo di padre: è stato eliminato, è “evaporato”, come affermano alcuni interpreti della situazione attuale. Sull’onda di Freud, la rivoluzione culturale degli anni ’60 ci ha proposto una società senza padri e ne ha teorizzato l’inutilità (Mischerling) o la pericolosità per la propria autonomia e autorealizzazione. La giusta contestazione dell’autoritarismo dei padri-padroni non ha saputo custodire l’essenziale: il principio di autorità. Autorità che deriva dal latino augère, che significa far crescere. E senza un padre non si cresce.

La realtà è che siamo tutti – chi più chi meno – coinvolti in un grande dramma. È come se fra padri e figli, la relazione più arcaica e fondamentale, ancorata nel profondo del cuore umano, fosse stato costruito un muro di paura, di rivalità, di sospetto, di lotta mortale. Ci è stato detto, in un modo o nell'altro, che al padre bisogna porre fine, sia per diventare se stessi, sia per stabilire la vera uguaglianza fra gli esseri umani. La crisi simbolica del padre è più profonda e più grave di una crisi culturale, o sociale, o economica. E provoca danni irreparabili.

Infatti il padre non si elimina impunemente. Sembra proprio che all’origine dell’incapacità o della paura di diventare adulti, che affligge moltissimi ragazzi e sta alla base di molti comportamenti devianti, ci sia proprio un difficile o irrisolto rapporto col proprio padre. Nello stesso tempo però emerge prepotentemente una spasmodica “voglia di padre", che accomuna ragazzi e ragazze (Pietropolli Charmet). Chi ha un rapporto educativo con gli adolescenti (ma non solo) testimonia la ricerca accorata, da parte di molti di loro, di una figura paterna. è un bisogno che, se non viene soddisfatto, può portare a conseguenze molto gravi: l’abbandono della scuola, l’apatia, l’anoressia, l’alcolismo, la droga, la delinquenza, il bullismo, la perdita di orizzonti di speranza per il futuro.

Ebbene, in questo momento, io penso che la paternità di San Giuseppe sia in azione per accompagnare l’umanità ferita nel cammino di riconciliazione con il padre: il padre con la “p” minuscola e il Padre con la “P” maiuscola. Tutti coloro che ne sentono la nostalgia possono ricorrere a lui, affidarsi al suo “patrocinio”, confidando che possa davvero aiutare a riempire i vuoti e le inconsistenze nostre, ma anche degli uomini e delle donne del nostro tempo, «per convertire il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri» (cf. Ml 3, 24a): forse, la profezia di Malachia, descrive un tratto importante dell'attuale missione di san Giuseppe nel misterioso intreccio della grazia di Dio con la storia dell'uomo.

Giuseppe già nel nome porta il suo compito. In ebraico infatti, significa “aggiunto”: aggiungere, andare oltre, superare ed è quanto San Giuseppe ci spinge a osare. La devozione a lui (nel senso compiuto del termine), la sua frequentazione, il renderlo partecipe della nostra vita, gli permette di accompagnarci nel nostro cammino.

Giuseppe di Nazareth, 

tu che sei stato padre 

e hai vissuto la preoccupazione, 

la fatica, le gioie, l'orgoglio di esserlo, guida l'umanità confusa ed esausta, aiuta i padri e i figli a ritrovarsi 

nell'amore e nella stima. 

Chiedilo per noi al tuo figlio Gesù 

insieme alla tua sposa Maria. 

Grazie che ci ascolti sempre.