di mons. Silvano Macchi
Il nome di Giuseppe sarà la nostra protezione durante tutti i giorni
della nostra vita, ma soprattutto al momento della morte
Beato Guglielmo G. Chaminade
Un viaggio (breve) è ciò che mi propongo di fare con queste puntate – tra storia, teologia, spiritualità, devozione – attorno a una delle tante invocazioni con cui è venerato e pregato san Giuseppe, ossia patrono dei moribondi (nelle litanie, Patrone moriéntium), patrono degli agonizzanti, patrono della buona morte. È un’invocazione con la quale è salutato Giuseppe a partire dal XVII secolo.
Il titolo di questi brevi articoli In illa hora tremenda (In quell’ora tremenda, espressione che appare in una preghiera da rivolgere a san Filippo Neri) immediatamente rimanda ai Novissimi. Il tema è tipico della religiosità del XVII e XVIII secolo, caratterizzata dal riferimento a un'imminente fine dei tempi e dunque al valore decisivo della morte come “resa dei conti” di fronte al Giudice supremo. Traduce in tal modo l’essenza profonda di una pietà popolare, di una psicologia e mentalità religiosa dominate dal timore dell’uomo di fronte alla morte, per affrontare la quale san Giuseppe doveva offrire un modello esemplare. Anche sul piano figurativo.
A proposito del Grand Siècle, il secolo di Luigi XVI, di esso tutto si può dire, tranne il fatto che la morte non fosse considerata come un evento estremamente serio (si vedano tra gli altri gli studi di Alberto Tenenti, Jacques Le Brun, Jean Delumeau, oltre al testo classico di Ph. Ariès, Storia della morte in Occidente, uno dei più rappresentativi sul tema della morte nella sensibilità collettiva europea), in bilico tra paure e speranze, tra minacce e rassicurazioni.
È proprio in questo periodo che si colloca la risonanza del Transito di san Giuseppe. Scrive una storica che ha molto studiato il culto giuseppino, Annarosa Dordoni, in due splendidi studi dal titolo In illa hora tremenda. La devozione a san Giuseppe patrono della buona morte nei secoli XVI-XX, (in Annali di Scienze Religiose, 1998 e 1999) tutti da leggere: «Il culto di Giuseppe, patrono dei morenti e della “buona morte”, nasce da una tradizione che vuole che Giuseppe vivesse una morte dolce, assistito da Gesù e Maria. Questo culto ebbe inizio in Italia e si stabilì in Francia dal 1640. È senza dubbio dovuto alle artes moriendi di Gerson, cancelliere dell’Università di Parigi, soprannominato doctor christianissimus, e alla sua promozione del culto a san Giuseppe, attraverso la sua opera monumentale, la Josephina, poema che racconta la storia della Sacra Famiglia dall’Annunciazione fino alla morte di Giuseppe».
Si può dire, in tal senso, con la Dordoni: «Fra i molteplici titoli attribuiti a san Giuseppe, quello di patrono della buona morte ha goduto, a partire soprattutto dal Seicento e fino ai primi decenni del Novecento, di una robusta fortuna e può essere annoverato fra gli attributi che più hanno contribuito ad avvicinare lo sposo di Maria alla pietà popolare. […] In questo contesto si può collocare la fortuna del tema del Transito di san Giuseppe, proposto come oggetto di meditazione, come modello di morte santa, come motivo di rassicurazione per i fedeli, invitati a impetrare la grazia di una buona morte dal santo che ebbe la fortuna di spirare tra le braccia di Cristo e di Maria».
Ma da dove nasce storicamente e religiosamente questo culto così caratteristico a san Giuseppe?
Il punto di partenza è indubbiamente l’apocrifo intitolato Storia di Giuseppe il falegname, un testo reperibile in molte edizioni degli apocrifi del Nuovo Testamento. Si tratta di uno scritto risalente al IV-V secolo secondo alcuni, secondo altri al VII secolo o invece anticipato addirittura al II secolo, ove si racconta in maniera molto dettagliata di san Giuseppe agonizzante, assistito da Gesù e dalla Vergine e affiancato dagli arcangeli Michele e Gabriele che lo difendono dagli attacchi degli spiriti nemici (i demoni, da cui l’invocazione delle litanie Terror dæmonum). Nell’apocrifo è lo stesso Gesù che dice oralmente agli apostoli quanto concerne Giuseppe prima della sua nascita, e infine la malattia, la morte e la sepoltura, fino a raccomandare di «dire queste parole di vita nel testamento del suo trapasso da questo mondo». Inoltre Gesù prosegue: «Leggete le parole di questo testamento nei giorni festivi e solenni come nei giorni feriali» e in tal modo l’apocrifo raccomanda implicitamente, mettendo le parole in bocca a Gesù stesso, il culto e l’onore da rendere a san Giuseppe, specie per ciò che concerne il suo essere refugium agonizantium.
Nel testo apocrifo il racconto della morte di Giuseppe si snoda tra l’atteggiamento fiducioso e paziente di abbandono, la letizia e la consegna di sé a Dio mediante il conforto ricevuto da Gesù, e la drammaticità, il travaglio, l’agonia, i gemiti, il terrore e il timore legati al trapasso da questa all’altra vita. Appunto in illa hora tremenda.
I due nodi dialettici (fiducia e timore) li ritroveremo anche a proposito della testimonianza evangelica circa la morte di Gesù: drammatica, angosciata e sofferta da un lato, e offerta, consegnata, fatta dono, come atto di fede e di libertà. La stessa dialettica si ritrova nel Nuovo Testamento anche in occasione della morte di Stefano, secondo la testimonianza dell’apostolo Paolo.