di Ottavio De Bertolis
Continuando a trattare l’immagine del sangue scaturito dal fianco trafitto del Signore, possiamo in questa nuova tappa del nostro cammino comprendere meglio uno dei punti principali della spiritualità del Sacro Cuore, ossia Cristo vittima dei nostri peccati. Il sangue infatti dice una vita spezzata dalla violenza, a partire dal sangue di Abele fino a quello dell’ultimo giusto. Contemplare Cristo in croce significa appunto contemplare il giusto per eccellenza, il vero Abele, il martire, cioè il testimone verace di Dio.
Qui possiamo vedere in particolare che cosa Gesù testimonia: non mostra un sangue che grida vendetta di fronte a Dio, per una violenza inflitta ingiustamente, ma un sangue che dice semplicemente fino a che punto si è consegnato a noi. Gesù non ha subito la passione e la morte come un evento inaspettato, un fatto ineluttabile: Gesù ha scelto, voluto intensamente, desiderato nell’intimo del suo Cuore, consegnarsi agli uomini “fino alla fine”. Si potrebbe dire che si è lasciato da noi tradire, abbandonare, uccidere, perché questo testimoniasse che a Lui noi andavamo bene anche così: paurosi, ingrati, testardi. In questo senso Lui si è fatto vittima: proprio come uno che si lascia schiaffeggiare, umiliare, pestare, perché attende che, proprio vedendo la sua sofferenza, il suo carnefice si plachi, si acquieti, capisca.
Possiamo comprendere le parole di Paolo: “annientò in se stesso l’inimicizia”, proprio in questo senso. Proprio come ognuno di noi nella sua vita per amore, di un figlio, di una donna, di un padre, si lascia maltrattare, nel senso più stretto del termine, e in questo senso si fa vittima di colui che da lui è amato, così anche Cristo. Così si accettano tradimenti, si pazientano ingiustizie, si sopportano pesi che non si sarebbe mai pensato di portare. Ci si carica la croce che è in quel momento la persona per la quale soffriamo, in modo che il suo peso si scarichi su di noi, e non su di lui. Se ci riflettiamo, è un’esperienza anche molto umana, e Gesù se l’è accollata in pieno, anzi, in pienezza.
La parola “vittima”, frequente nella Liturgia come del resto nella Scrittura (cfr. 1 Gv 2, 2: “egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”), non dice dunque, come si potrebbe purtroppo pensare, una specie di Dio-mostro, che chiede il prezzo del sangue di un giusto per placare la sua sete di vendetta per i nostri peccati. Dice la compassione di Dio stesso, che non difende la sua santità dai nostri peccati, ma si lascia davvero ferire, nel senso più letterale del termine, e uccidere, negare, tirare via di mezzo. La famosa frase di Nietzsche: Dio è morto, noi l’abbiamo ucciso, in fondo è vera. Ma la redenzione consiste proprio nel fatto che Dio ha permesso, accolto, accettato tutto questo: ci ha conosciuti, amati, voluti per quel che siamo, fino alle estreme conseguenze. Il suo Cuore è stato aperto infatti non dai meriti di pochi giusti, ma da quello che accomuna tutti noi: un colpo di lancia. L’onnipotenza e la bontà, e vorrei dire anche la fantasia, di Dio, si rivelano nell’avere vinto il male con le sue stesse armi: quello che ci mostrava colpevoli, è anche quello per cui ci viene il perdono, perché Lui si è lasciato volentieri trattare così.
è il mistero della Pasqua. E questo il demonio, l’autore di ogni male, non poteva aspettarselo: il Signore lo ha vinto proprio con quell’arma che lui non poteva aspettarsi, e cioè l’umiltà. Cristo Gesù infatti umiliò se stesso, lasciandosi così mal-trattare, e da Signore qual era si è fatto vittima. Così è divenuto la nostra giustificazione, e quella ferita è divenuta la porta della nostra salvezza.