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di Ottavio De Bertolis

Come ricorderete, abbiamo iniziato a riflettere sul simbolo del sangue di Cristo, sgorgato dalla ferita del suo fianco. La volta scorsa abbiamo visto come quel “sangue e acqua” rinviano a quel sangue che troviamo menzionato nel libro dell’Esodo, in particolare all’agnello immolato al tramonto della prima Pasqua, quella che segnò l’uscita dall’Egitto, e al sangue della vittima che segna la stipulazione dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, con il quale Mosè asperge il popolo. Oggi vorremmo fare un passo in più e sommariamente accennare a come un intero libro del Nuovo Testamento, la lettera agli Ebrei, si riferisca abbondantemente al sangue di Cristo.

Sappiamo che fu scritto da un sacerdote ebreo divenuto cristiano: quindi, non un sacerdote cristiano, un prete come siamo abituati a vedere, ma un sacerdote ebreo, che offriva sacrifici secondo la legge di Israele, nel tempio di Gerusalemme, che poi divenne cristiano. L’intera lettera spiega tutto il sacerdozio mosaico, le sue vittime sacrificali e i riti sacri, alla luce di Cristo e della sua redenzione. In questo senso, definisce tutte le cerimonie antiche come “ombra e figura” di quello che doveva venire, il vero sacerdote e la vera vittima che è Gesù Cristo: lui è dunque il compimento di quelle che erano solamente delle figure, e che sono scomparse.

Sarebbe molto bello potere riprendere in mano tutto il testo, per potere scendere nei particolari: qui non lo possiamo fare e ci limitiamo a qualche accenno. Possiamo riprendere dunque le stesse parole dell’Autore: “Il punto capitale delle cose che stiamo trattando è questo: noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli, ministro del santuario e delle vera tenda che ha costruito il Signore e non un uomo” (Eb 8, 1-2). Si fa così un parallelismo tra il sommo sacerdote giudeo, che entrava nel santuario di pietra e costruito dagli uomini, nella tenda fatta da mani d’uomo, e Gesù: Lui è il vero sacerdote, che offre se stesso: “Infatti se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsi su quelli che sono contaminati, li santificano, purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte per servire il Dio vivente?”(Eb 9, 13-14). Quel sangue sparso sulla croce non è solo il sangue del giusto, sparso dalla violenza degli uomini, non è solo il sangue della Pasqua del vero agnello immolato, non è solo il sangue dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, ma è anche il sangue dell’offerta, del vero sacrificio che riconcilia a Dio.

Vedete come dietro una sola parola, qui “sangue”, possiamo leggere, come in controluce, moltissime allusioni, che indicano tutti i principali significati della Scrittura? Questo è possibile proprio perché siamo di fronte a una parola che ha un significato non solo reale, che si riferisce cioè ad una cosa concreta, qui il sangue, ma anche simbolico: il simbolo mette insieme molti significati, aprendoli in un ventaglio. Contemplare il cuore di Cristo significa dunque vedere il giusto, del quale il salmo dice che non gli sarà spezzato alcun osso, l’agnello immolato al tramonto, la vera Pasqua della quale la prima è stata solo un ombra, limitata ad Israele, l’uscita dall’Egitto; è poi l’alleanza, il sangue della “nuova ed eterna alleanza”, come diciamo in ogni messa; la vittima ed il vero sacerdote al tempo stesso, che offre se stesso per noi, riconciliandoci con Dio. Il Simbolo del Cuore di Cristo condensa in sé l’acqua, con tutto quel che significa, e il sangue, nella loro unica fonte.