di Giovanni Cucci
L’età dei 40 anni è per molti versi significativa, non ultimo perché oltrepassandola si varca il «mezzo del cammin di nostra vita» di dantesca memoria, trovandoci inevitabilmente a riflettere con sempre maggiore frequenza sul delicato tema della vecchiaia e della morte. “Inizia la discesa”, si suole dire, e non si può fare a meno di guardare a dove questa importante età di passaggio ci conduca. È quanto emerge a esempio in modo nitido da questa testimonianza: «Come ricordo quel periodo, all’incirca quando compii 40 anni, un’epoca in cui la mia mortalità cominciò a ossessionarmi!
Mio padre stava morendo, e può darsi che sia stato quel fatto a farmi rendere conto che anch’io, nonostante non presentassi sintomi di malattia, stessi morendo giorno per giorno. Quel pensiero non era conscio né deliberato. Non vedevo l’ora di liberarmene, ma di fatto mi ossessionava. Dopo, circa un anno è passato, e da allora sono tornato a vivere in pace. Ma in realtà non sono più stato lo stesso di prima: in quell’anno, ho dovuto guardare la morte in faccia, accettarla come reale per me, “affermare” che la mia morte era l’evento più reale e più importante della mia vita». (Green) Per questo la relazione con Dio deve diventare la ragion d’essere della persona: in caso contrario tutto si sgretola impietosamente. La durezza della vita è anche il banco di prova che separa, come direbbe san Paolo, l’oro dalla paglia, ciò che ha valore da ciò che tornerà in polvere: «Solo se l’uomo crede che dopo la morte esiste un’altra vita, la fine della sua vita terrena, la morte, è una meta ragionevole. Solo allora la seconda metà della vita ha in se stessa il suo senso e il suo compito. A metà della propria vita l’uomo deve entrare in familiarità con la sua morte. In definitiva la paura di fronte alla morte è questo: non voler vivere. Infatti vivere, rimanere vivo e giungere a maturazione, è possibile solo a colui che accetta la legge della vita, che si dirige verso la morte come la sua meta. Invece di guardare verso il traguardo della morte, molti guardano indietro verso il passato. Mentre tutti deploriamo un giovane uomo di 30 anni che continui a guardare la sua infanzia, rimanendo bambino, la nostra società ammira invece i vecchi che fanno mostra di essere giovani e si comportano di conseguenza ». (Grün) Il tentativo di censurare la morte è la conseguenza di un più remoto e profondo atteggiamento culturale proprio della civiltà occidentale, sviluppatosi nel corso dell’era industriale. A partire dal secolo XVIII il tema della morte viene “congelato”, messo in una sorta di limbo, anche se in tal modo la morte, come ogni realtà repressa, fa sentire in modo ancora più inquietante la propria suggestione: «Oggi i bambini vengono iniziati, fin dalla più tenera età, alla fisiologia dell’amore e della nascita, ma quando non vedono più il nonno e chiedono perché, in Francia si risponde loro che è partito per un paese molto lontano e in Inghilterra che riposa in un bel giardino dove cresce il caprifoglio. Non sono più i bambini a nascere sotto un cavolo, ma i morti a scomparire tra i fiori. I parenti dei morti sono quindi costretti a fingersi indifferenti». (Ariès) Insieme alla perdita del senso del sacro, l’incapacità di affrontare e vivere la propria morte costituisce un segno di preoccupante impoverimento sociale e civile, una miseria culturale che genera disperazione e morte, e paradossalmente il non pensare mai ad essa ci dà illusione di essere immortali. C’è una preghiera latina, mai tradotta in italiano, e ormai caduta in disuso che recita: «a repentina et improvisa morte libera nos Domine». Noi oggi diremmo il contrario: Signore, per favore, dacci una morte improvvisa e repentina. E del resto, in molti funerali si sente spesso commentare: «Però, che fortuna, è morto senza neanche accorgersene». Per gli antichi questa era la morte peggiore: è come essere chiamati a sostenere un esame senza essersi minimamente preparati. E non è difficile immaginare come in questo caso ci sia in gioco ben più che un esame. Anche la diffusione sempre più frequente della cremazione (per certi versi divenuta una moda), oltre a indubbie motivazioni economiche e di razionalizzazione degli spazi, presenta una mascherata forma di igiene finale, di cosmesi. Che cancella la memoria del defunto, della propria morte, della stessa malattia e del dolore, realtà vissute in maniera molto differente nelle epoche precedenti alla nostra. [per un approfondimento cfr G. Cucci, La forza dalla debolezza, Adp, cap. V]