di Madre Anna Maria Cánopi
Nell’itinerario di “rivisitazione” dei documenti del Concilio Vaticano II non può mancare un’attenzione particolare alla Costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa e il mondo contemporaneo. Tra tutti i documenti conciliari forse questo poteva essere considerato meno interessante per chi aveva abbracciato la vita monastica claustrale, la quale è, per sua natura, vocazione di “separazione dal mondo”. Ma già alla lettura del Proemio ci si poteva convincere che non era affatto così. Personalmente, lo sentii subito molto consono al mio modo di intendere e vivere la mia vocazione, che era andata maturando proprio nei difficili anni della guerra e dell’immediato periodo post-bellico, quindi a contatto con la più atroce e insensata violenza, a contatto con il dolore umano, nell’esperienza dell’impotenza a lenire tanta sofferenza e a fasciare le ferite di tanti cuori…
Posso ora aggiungere che è un documento la cui attualità e importanza sono andata scoprendo poco alla volta, man mano che sono cresciute anche le mie responsabilità di monaca – dapprima come Madre Maestra, poi come Abbadessa – sia all’interno della comunità che nel rapporto con gli ospiti del monastero, attraverso i quali vengo a contatto diretto con tutte le «speranze e angosce» di cui il documento parla, illuminandole e inquadrandole all’interno di una visione di fede.
Come monaca benedettina, mi è venuto spontaneo, leggendo e meditando la Gaudium et Spes, di accostarla alla Regola di san Benedetto, cogliendo tra i due testi, pur molto diversi tra loro, suggestivi richiami e collegamenti. E non è strano. I monaci, infatti, benché separati dal mondo, sono nel cuore della Chiesa, e da quel centro segreto e profondo sentono tutto quello che nella Chiesa si agita, tutto quello che la preoccupa e la anima; perciò ne condividono, nel nascondimento, le materne sollecitudini per tutti i suoi figli e per tutti gli uomini.
Le prime parole della costituzione conciliare esprimono quel sentimento di empatia universale che ogni vero cristiano deve avere verso tutti i suoi fratelli in umanità e verso l’intera creazione: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» (n. 1).
Rinato a vita nuova mediante il Battesimo, il cristiano non è più un individuo chiuso in se stesso, ma è innestato in Cristo, è membro del suo Corpo mistico: la Chiesa. Perciò, nella misura in cui è fedele al proprio Battesimo, è animato dallo stesso amore di Cristo e della Chiesa che lo rende assetato della salvezza di tutti.
Il Concilio mette subito in evidenza nel documento un aspetto molto importante del vivere umano e cristiano: la dimensione comunitaria. Afferma infatti: «La comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia». Oggi abbiamo estremamente bisogno di riscoprire il valore della comunione, dell’interdipendenza e della solidarietà, per poter uscire da quell’egoismo individualistico e da quell’orgogliosa autosufficienza che sono – come tante volte ha sottolineato papa Benedetto XVI – il male endemico del nostro tempo, tecnologicamente sempre più avanzato, ma anche drammaticamente sempre più povero in umanità.
In un suo recente intervento, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, ha affermato con chiarezza che i cristiani, rinnovati dalla morte e risurrezione di Cristo, «diventano un granello di senape, lievito, sale della terra, testimoni entusiasti e gioiosi del Regno nel nostro mondo». Ma questo a condizione che agiscano «insieme». Altrimenti è inevitabile cadere sotto il peso della stanchezza e dello scoraggiamento. Camminare insieme è l’imperativo della vita nuova (cf. Incontro al mistero, Qiqajon, Magnano 2013). In questa prospettiva, la storia è il tempo che ci è dato per grazia, affinché, convertendoci, possiamo ritornare a Colui dal quale ci siamo allontanati cedendo alla tentazione della disobbedienza (cf. Prologo della Regola di san Benedetto, 2).
Dopo il Proemio, con il suo invito alla «fraternità universale», la Gaudium et Spes prosegue con un’ampia esposizione introduttiva in cui si delineano le condizioni dell’uomo nel mondo contemporaneo. Si tratta di una situazione dai forti contrasti, causati dal fatto che al crescente progresso tecnico e al miglioramento delle condizioni socio-economiche non corrisponde un adeguato miglioramento o avanzamento morale e spirituale, anzi, avviene drammaticamente proprio il contrario. Infatti, più l’uomo è ricco materialmente, più rischia di diventare schiavo della materia, preda delle passioni, dimentico degli altri e ingrato verso Dio. Egli così si abbrutisce: sfigura il suo volto interiore, l’immagine divina che porta impressa nell’intimo di sé, e mentre cerca di mostrarsi potente e autonomo, arriva invece a conoscere la più profonda disperazione. «In verità gli squilibri di cui soffre il mondo contemporaneo si collegano con quel più profondo squilibrio che è radicato nel cuore dell’uomo. È proprio all’interno dell’uomo che molti elementi si combattono a vicenda. Da una parte, infatti, come creatura esperimenta in mille modi i suoi limiti; d’altra parte sente di essere senza confini nelle sue aspirazioni… Inoltre, debole e peccatore, non di rado fa quello che non vorrebbe e non fa quello che vorrebbe» (n. 10).
Come si può costatare, questo documento dedicato alla Chiesa nel suo rapporto con il mondo contemporaneo mette in luce più profondamente il rapporto della Chiesa con l’uomo di sempre, con l’uomo alla ricerca del senso del vivere, abitato da domande che lo tormentano e non gli permettono di accontentarsi di una vita mediocre, di una felicità effimera, illusoria.
Negli animi si agitano angoscianti interrogativi. Perché tanto dolore? Perché il male e la morte? A che giova faticare tanto, se, alla fine, bisogna lasciare tutto? E a che valgono anche le conquiste del progresso pagate a così caro prezzo? Se io mi spendo per la società del domani, perché la società di oggi non colma il mio desiderio di bene? Che cos’è, dunque, l’uomo?
Nel mondo contemporaneo tali domande sono rese ancora più drammatiche e dolorose in conseguenza dei profondi e rapidi mutamenti sociali e del crescente processo di globalizzazione. Là dove non c’è un’adeguata preparazione umana e spirituale, il contatto diretto con le diverse culture, religioni, visioni della vita non è fonte di arricchimento, ma piuttosto causa di disorientamento. Infatti, spesso, molti, invece di aprirsi agli altri nella solidarietà dell’amore e nel rispetto delle differenze, cadono in una pericolosa e perniciosa incapacità di scelta, di radicamento, di fedeltà e si chiudono in una mentalità individualista che confonde il “vero” con “ciò che penso”, il “bene” con “ciò che mi torna utile”, la libertà con il “fare ciò che voglio”. Inoltre, l’accostamento tragico tra condizioni di vita tanto diverse – la ricchezza fino allo spreco accanto a situazioni di vera e propria indigenza – invece di suscitare uno slancio oblativo, troppo spesso causa reazioni di protesta e di violenza che, pur essendo anche espressione di una giusta indignazione, aumentano la povertà e la miseria materiale e spirituale dell’intera umanità.
Di fronte a questa situazione, analizzata e descritta con cura, i padri conciliari non hanno ceduto ad un facile pessimismo; al contrario, hanno voluto rinnovare a nome di tutti, a nome dell’intera Chiesa, il loro atto di fede: «Ecco, la Chiesa crede che Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all’uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per rispondere alla sua altissima vocazione… Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana. Inoltre la Chiesa afferma che, al di là di tutto ciò che muta, stanno realtà immutabili; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli» (n. 10).
Questa bellissima “professione di fede” inserita all’interno del documento suggerisce che, per affrontare situazioni difficili e penose, occorre innanzitutto rafforzarsi nella fede: da essa vengono la luce e la forza per scorgere nuovi cammini là dove si vedevano solo ostacoli.
San Benedetto, aprendo la sua Regola con l’esortazione: «Ascolta, figlio» (Prol 1), rivela subito all’uomo smarrito e insoddisfatto di sé chi egli realmente è, e gli fa conoscere il volto di un Dio che è Padre e che va premurosamente incontro ai suoi figli per coinvolgerli in prima persona nel suo disegno di salvezza universale. Egli, che pure è Signore del mondo, Dio onnipotente ed eterno, cerca tra gli uomini qualcuno che lo aiuti: «Gli occhi nostri spalancati alla luce divina, gli orecchi attòniti per lo stupore, ascoltiamo la voce di Dio… Il Signore, cercandosi il suo operaio tra la moltitudine del popolo cui rivolge un appello, dice: C’è qualcuno che desidera la vita e brama lunghi giorni per gustare il bene?». E san Benedetto conclude: «Che cosa vi può essere di più dolce per noi, fratelli carissimi, di questa voce del Signore che ci chiama? Ecco, il Signore, nella sua grande bontà, ci mostra il cammino della vita» (Prol 14-20 passim).
Davanti a tale appello bisogna anzitutto prendere una decisione risoluta, poiché si tratta di scegliere la vita o la morte. Già al popolo d’Israele sempre in travaglio il Signore sollecitava una risposta saggia: «Io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore, tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita» (Dt 30,19-20). Che cosa potrebbe esservi di più bello e rassicurante del sapere che Dio stesso, Fonte della vita, è proprio Lui la nostra vita?
La vocazione fondamentale dell’uomo è di vivere la sua relazione d’amore con Dio. Al di là della cultura cui appartiene, al di là anche della condizione sociale, delle doti naturali e persino al di là della religione abbracciata, «l’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità» (n. 16).
È a queste profondità che bisogna scendere per entrare realmente in comunione con Dio, per conoscere le sue vie e rivestirsi dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, che sono sentimenti e pensieri di pace e di amore. Ne consegue anche la capacità di vivere in comunione con tutti gli uomini di buona volontà. Infatti, tanto più prevalgono scelte comuni compiute con retta coscienza, tanto più si instaura la civiltà dell’amore. Ma quanto è arduo questo cammino! È la via stretta che bisogna percorrere per lasciarsi purificare, affinché non accada che la coscienza diventi cieca e sorda a causa dell’abitudine al male e al peccato.
Il cuore è il luogo dove, giorno dopo giorno, con l’aiuto della grazia, l’uomo è chiamato a combattere la lotta decisiva tra l’attrazione al bene e la seduzione del male mascherato; è il luogo dove si prendono, nel silenzio e nella fatica talvolta eroica, decisioni fondamentali che avranno poi un peso determinante nel cammino della storia. Il Concilio invita tutti gli uomini di buona volontà ad agire responsabilmente in vista del bene comune, volgendo l’attenzione ad alcuni degli ambiti più delicati e importanti della società civile: quali la famiglia, l’educazione e la cultura, il lavoro, la vita economica e politica, la pace…
Di fronte alle tante atrocità che si ripetono e all’ateismo – sistematico e pratico – che si va sempre più diffondendo (cf. GS 18-21), il cristiano è chiamato in modo ancor più pressante a rendere testimonianza della propria fede e a dare ragione della propria speranza. Per questo “eroico quotidiano” occorre tenere fisso lo sguardo su Gesù, sul Cristo nell’agonia del Getzemani, morente sulla Croce e Risorto. Occorre – esorta san Benedetto nella sua Regola – perseverare nell’amore, partecipando, «con il nostro mite patire, alle sofferenze del Cristo, per meritare di condividerne pure la gloria nel suo Regno» (Prol 50). E condividerla tutti insieme, poiché a questo siamo chiamati, all’unica, eterna gioia, che è la comunione dei santi, in Dio.