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di Madre Anna Maria Cánopi

Preghiera e missione gemellati nell’azione. Accanto a San Francesco Saverio, non a caso è stata proclamata compatrona delle missioni Santa Teresa di Gesù Bambino, la quale mai si allontanò dalla Francia, ma consumò la sua breve vita entro le mura del Carmelo di Lisieux.

«I Padri conciliari… sentendo profondamente il dovere di diffondere dappertutto il regno di Dio, rivolgono un saluto affettuosissimo a tutti i messaggeri del Vangelo, a coloro specialmente che soffrono persecuzioni per il nome di Cristo, e si associano alle loro sofferenze. Sono anch’essi infiammati da quello stesso amore, di cui ardeva Cristo per gli uomini. Consapevoli che è Dio a far sì che venga il suo regno sulla terra, insieme con tutti i fedeli essi pregano perché, mediante l'intercessione della Vergine Maria, degli apostoli, le nazioni siano quanto prima condotte alla conoscenza della verità (cfr. 1 Tm 2,4) e la gloria di Dio, che rifulge sul volto di Cristo Gesù, cominci a brillare in tutti gli uomini per l'azione dello Spirito Santo (2 Cor 4,6)». Con queste vibranti parole, che rivelano un’intima e profonda compartecipazione, i Padri conciliari concludevano il decreto Ad gentes sull’attività missionaria della Chiesa, promulgato in data 7 dicembre 1965, ossia alla vigilia della solenne chiusura del Concilio stesso. Già questo indica che l’iter del documento fu difficile e complesso, sia per la diversità delle situazioni, delle esigenze, delle culture cui dare voce – non era davvero facile condensare in un unico documento le proposte e le sfide avanzate dai vescovi e dai missionari che parlavano a partire dalla loro diretta esperienza di portare il Vangelo in culture tra loro molto differenti – sia per la concezione stessa di “missione” che ne è emersa. Non era più considerato soltanto un cammino dalla Chiesa di antica tradizione verso le nuove Chiese, ma un dono reciproco in cui tutti si trovano coinvolti nello stesso slancio di amore che spinse Cristo a farsi uomo e a sacrificarsi per la nostra salvezza. La fatica venne ampiamente premiata: l’insieme del decreto fu approvato con 2.394 voti favorevoli e solo 5 contrari, il più alto livello di unanimità nelle votazioni del Concilio! «Lo Spirito Santo c’è davvero!», ebbe ad esclamare un cardinale.
A noi che – in gran parte ignari del lungo lavorio dei Padri – abbiamo letto il testo definitivo, esso è apparso come una mirabile sintesi di tutto il Concilio, un documento nel quale si sentiva l’eco di tutti gli altri e che ad essi rimandava, un documento che tutti ci coinvolgeva nella missione materna della Chiesa. Come è bello, allora, pensare che sia “venuto alla luce” proprio nel cuore dell’Avvento, quando con più intensità la Chiesa intera fa risuonare il grido sempre vivo nel cuore dei credenti: Vieni, Signore Gesù! È Lui il primo Inviato, il primo “missionario”, sceso dal cielo, dal seno del Padre, sulla terra per portare agli uomini il “lieto annunzio”, la “buona notizia” della salvezza e spargere ovunque il seme del  Vangelo.
Questo documento conciliare – che riprende e sviluppa il tema pasquale della natura missionaria della Chiesa – ha sempre attirato la mia attenzione e, più in generale, ha sempre profondamente interrogato e coinvolto il mondo monastico tanto maschile che femminile. Infatti, come già il decreto sulla divina liturgia, Sacrosanctum Concilium, esso ci interpella direttamente e, per diverse ragioni, ci riporta all’origine della nostra vocazione, ci “costringe” a renderci sempre più consapevoli delle sue esigenze e del suo valore per la Chiesa universale. Inutile ricordare che, accanto a San Francesco Saverio, non a caso è stata proclamata compatrona delle missioni Santa Teresa di Gesù Bambino, la quale mai si allontanò dalla Francia, ma consumò la sua breve vita entro le mura del Carmelo di Lisieux. D’altronde, sono ancora numerose le giovani che abbracciano la vita claustrale portando nel cuore un forte anelito missionario, da cui è sostenuta e animata la loro preghiera e la loro quotidiana offerta di sé a Dio per i tutti fratelli, anche i più lontani e sconosciuti.
Io stessa mi ricordo come un giorno, adolescente, entrando in una chiesa, vidi un quadro con una Santa che ancora non conoscevo. Chiesi ad un prete chi fosse ed egli mi spiegò brevemente che si trattava di Santa Francesca Saverio Cabrini, missionaria, chiamata anche “madre degli emigranti”. Mi bastò per aprirmi ad una nuova dimensione della fede. La conoscenza dell’opera missionaria della Chiesa mi fece nascere il desiderio di andare in mezzo a quelle popolazioni ancora pagane e di costumi primitivi, di cui leggevo racconti impressionanti nei libri e nelle riviste dei missionari.
Intanto, però, bisognava crescere e finire gli studi. Erano gli anni dell’immediato dopoguerra. Anni duri in ogni senso, anni in cui era tanto facile trovarsi davanti alla realtà dell’odio e della violenza gratuita, della miseria morale e materiale e delle più sconcertanti ingiustizie sociali. Come già ebbi modo più volte di dire, la sofferenza degli altri, soprattutto dei piccoli e dei deboli che avevo sempre sotto gli occhi, mi feriva profondamente e non mi dava pace. Negli anni successivi misi perciò tutte le mie forze a disposizione di un Ente cattolico di assistenza, ma intanto maturava dentro di me qualcosa che non sapevo nemmeno definire: un’esigenza di totalità nella scelta di Dio e del prossimo per Dio. Mi diventavano più chiare anche le parole di Gesù ai discepoli: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Ecco, io mi sentivo chiamata a quel “più grande amore” e volevo essere dovunque, con tutti, per tutti: ma ciò era umanamente impossibile. Allora? Il Signore mi indicava la via del martirio d’amore che è la vita monastica.
Quale gioia mi diede, allora, la scoperta della profonda consonanza che c’è tra il volto del monaco, quale appare dalla Regola di san Benedetto, e il volto del missionario che emerge dal documento conciliare!
Il monaco – dice san Benedetto – è un “figlio prodigo” che, rientrando in se stesso, decide nel suo cuore il santo viaggio della conversione; lasciato il mondo, stabile in monastero, ritorna a Dio per ducatum Evangelii, sotto la guida del Vangelo, facendo della sua vita un’umile offerta al Padre, nascostamente e silenziosamente consumata nell’incessante preghiera e nel generoso lavoro, in una solitudine che è comunione d’amore. La vocazione monastica è dunque una radicale sequela Christi, senza altro scopo che di conformarsi a Lui, Figlio obbediente del Padre, e di partecipare alla sua Passione redentrice per la salvezza di tutti.
Il missionario – si legge nel decreto Ad Gentes – risponde alla chiamata di Dio «in maniera tale da vincolarsi del tutto all’opera evangelica». Egli non si limita a “fare qualcosa” per gli altri, ma si impegna innanzitutto a diventare «partecipe della vita e della missione di Colui che “annientò se stesso, prendendo la natura di schiavo” (Fil 2,7); deve quindi esser pronto a rinunciare a se stesso – abnegare semetipsum sibi, direbbe san Benedetto – […] persuaso che l’obbedienza è la virtù distintiva del ministro di Cristo» (n. 24).
L’uno rimanendo nell’amore, l’altro partendo sospinto dall’amore, monaco e missionario si incontrano in quel dono totale di sé che li rende letteralmente “proprietà” di Dio, strumenti nelle sue mani di Padre buono e «umili servi del Signore», nella consapevolezza che l’evangelizzazione per essere feconda ha bisogno innanzitutto di persone che vivano sotto il segno della gratuità e dell’obbedienza, accettando di morire ogni giorno a se stesse al fine di essere per gli altri. Dal proprio “io” agli altri: è questa la partenza più urgente e da compiere ogni mattina.  Allora – come ricorda il documento Ad gentes – si è missionari ovunque; in qualsiasi stato di vita, si può essere annunciatori del Vangelo: «Tutti i cristiani, dovunque vivano, sono tenuti a manifestare con l’esempio della loro vita l’uomo nuovo, di cui sono stati rivestiti nel battesimo, e la forza dello Spirito Santo, da cui sono stati rinvigoriti nella cresima; sicché gli altri, vedendone le buone opere, glorifichino Dio Padre e comprendano più pienamente il significato genuino della vita umana e l’univer­sale legame di solidarietà degli uomini tra loro» (n. 11).
Proseguendo, il documento aggiunge un’altra nota importantissima. Come la Chiesa universale è un corpo dalle molte membra, tutte necessarie per la buona salute dell’intero organismo, così in ogni Chiesa particolare è bene che siano presenti tutte le membra (tutte le vocazioni), nessuna esclusa, ma in particolare dovrebbe essere presente la vita consacrata: «La vita religiosa deve essere curata e promossa fin dal periodo iniziale della fondazione della Chiesa [in terra di missione], perché essa non solo è fonte di aiuti preziosi e indispensabili per l’attività missionaria, ma attraverso una più intima consacrazione a Dio fatta nella Chiesa manifesta anche chiaramente e fa comprendere l’intima natura della vocazione cristiana» (n. 18). E ancora più esplicitamente: «Meritano speciale considerazione le varie iniziative destinate a stabilire la vita contemplativa… Poiché la vita contemplativa interessa la presenza ecclesiale nella sua forma più piena, è necessario che essa sia costituita dappertutto nelle giovani Chiese» (Ibidem).
A questo proposito posso dire che, fin dall’inizio della nostra fondazione sull’Isola San Giulio (Lago d’Orta - Novara) – ormai quarant’anni fa – abbiamo avuto uno stretto rapporto con i missionari della nostra diocesi e con altri missionari che, di anno in anno, hanno cominciato a conoscerci e a legarsi spiritualmente a noi. Quando tornano in Italia, anche solo per un breve periodo, non mancano di fare una sosta di preghiera in monastero, ritemprandosi le forze e offrendoci la loro preziosa testimonianza che ci è sempre di stimolo ad una più generosa offerta. Da parte di molti di loro abbiamo avuto chiari inviti ad aprire un monastero nella loro missione, poiché ne avvertono la necessità. Se finora non ci sono ancora state le condizioni indispensabili per realizzare ciò, rimane che è cresciuto moltissimo il nostro impegno e il nostro coinvolgimento missionario. Tra le molte testimonianze che potremmo portare di questo fecondo scambio di grazia, ne vogliamo qui ricordare almeno una, quella del sacerdote fiorentino don Renzo Rossi, da poco tornato alla Casa del Padre, dopo essere stato per oltre trent’anni missionario in Brasile e poi anche in Mozambico e in Burundi. In una delle sue ultime lettere, così mi scriveva: «Sogno di rinchiudermi nel suo “monastero” per… riprendere fiato”! gli ultimi quattro mesi sono stati molto faticosi, anche se bellissimi (specie in Brasile)… Sono felice di poter fare “il monaco”».
Questa esigenza di preghiera e di contemplazione, che noi notiamo in tutti i missionari, è andata maturando in lui proprio in terra di missione. «È necessario – scriveva dal Brasile nel 1972 – che le suore di clausura, pur rimanendo per ora in Italia, partecipino intimamente alla sofferenza dei poveri con la loro preghiera e la loro vita di ogni giorno. Ci vuole questa testimonianza di chi, nel silenzio di un monastero o in un letto di ospedale, offra se stesso a Dio per la salvezza del mondo, per la liberazione dell’uomo… È urgente pregare e pagare di persona, offrendo a Dio la propria sofferenza, la fatica del lavoro, il tormento di ogni giorno», e offrendole con gioia, come sempre ci diceva, «perché il sacrificio rende possibile una gioia più grande e intima… Discorso irreale, se volete, ma io a certe verità ci ho sempre creduto e qui in Brasile ne sono ancor più convinto».
Effettivamente è così. Ogni monastero è una Chiesa in missione, là dove si trova. Semplicemente con la sua presenza, con il suo modo di vivere, annuncia il Vangelo della salvezza e della gioia, testimonia l’amore infinito di Dio e rende in certo modo visibile il regno di Dio, le realtà eterne.