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di Roberto Franchini

L’auspicio è che il Governo apra ad un confronto più ampio, coinvolgendo, oltre all’associazionismo, anche le istituzioni secolari che nella loro storia hanno dato risposte alle persone con disabilità, anche quando i sistemi di Welfare ancora non esistevano. In un dialogo costruttivo, sarà possibile anche mettere mano a quei dispositivi di autorizzazione e accreditamento che hanno eccessivamente standardizzato l’accoglienza alle persone con disabilità, rischiando di impoverire la ricchezza dei carismi generativi… che sia questa la vera chiave della cosiddetta de-istituzionalizzazione?

Nella seduta del 9 dicembre 2021, l’Assemblea della Camera ha approvato all’unanimità il disegno di legge recante una delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di disabilità. Il disegno di legge, atteso da tempo come strumento per l’integrazione delle policy nei confronti delle persone con disabilità (ad oggi frammentate in diversi ambiti – sanitario, sociosanitario, sociale, politiche attive del lavoro, istruzione, etc.) intende al contempo rappresentare il quadro valoriale e normativo per l’attuazione di una delle riforme previste dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Si tratta in particolare di una specifica componente della Missione 5 “Inclusione e Coesione”, denominata “Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore”, finanziata a partire dalle risorse del nuovo Fondo disabilità e non autosufficienza, e finalizzata alla piena realizzazione dei principi della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, ratificata dall’Italia fin dal 2009, secondo un approccio coerente con la Carta dei diritti dell’Unione europea e con la recente “Strategia per i diritti delle persone con disabilità 2021-2030”.

Si tratta dunque di un segno di grande attenzione da parte del Governo Italiano, oltre che un tentativo importante di porre le basi per la semplificazione di aspetti delicati per la Qualità di Vita delle persone con disabilità, come l’accesso ai servizi, i meccanismi di accertamento della disabilità e, più importante ancora, gli strumenti per la messa a punto del Progetto di Vita, che dovrà costituire la chiave di volta, l’elemento in grado di armonizzare tutti gli interventi in un quadro sensato e curvato sulla persona.

Mentre dunque va sottolineato il pregio di questa straordinaria iniziativa, occorre anche ribadire alcuni aspetti critici, che per altro potranno e dovranno essere discussi lungo il cammino che, nelle intenzioni del Governo, porterà entro venti mesi ad uno o più decreti legislativi, che completeranno l’itinerario di riordino e integrazione del quadro normativo.
Tra questi, spicca una latente ambiguità nei principi ispirativi: da una parte, infatti, emerge finalmente l’ampio scenario della Qualità di Vita, in tutti i suoi domini, che richiedono un’ampia gamma di servizi e sostegni, individuati attraverso la valutazione multidimensionale, e da un bilancio ecologico in grado di rapportare i desideri, le aspettative e le scelte della persona con le opportunità offerte dal contesto, considerando attentamente la presenza di barriere e facilitatori.
Dall’altra, sin dal titolo della proposta di legge (Norme per garantire la vita indipendente delle persone con disabilità) si avverte uno sbilanciamento a favore di uno degli aspetti della Qualità della Vita, ovvero l’Indipendenza (come per altro accade anche nella citata Convenzione Onu). Se è indubbio che l’essere indipendenti favorisce la piena espressione di sé, occorre però considerare anche altri aspetti altrettanto determinanti, come il Benessere e l’Appartenenza, valutandone di volta in volta la priorità proprio all’interno del Progetto di Vita, secondo una logica non ideologica, ma concreta e realmente personalizzata. Infatti, paradossalmente una condizione di totale Indipendenza potrebbe per alcune persone compromettere sia il benessere (fisico, psicologico e spirituale) che l’appartenenza sociale e comunitaria.

La ricaduta metodologica di questo sbilanciamento si avverte anche nell’esplicito riferimento alla cosiddetta de-istituzionalizzazione (presente anche nel Pnrr). Che cosa si intende con questo termine? Se con esso si vuole affermare il diritto alla vita in contesti ricchi di opportunità e rispettosi dei diritti e dell’autodeterminazione, allora non c’è nulla da dire (se non magari richiedere una maggiore chiarezza). Se invece con esso si volesse immaginare che tutte le persone con disabilità debbano abitare da sole, o in piccolo numero, nel contesto di appartamenti di civile abitazione, allora c’è il rischio di trascurare l’ampia eterogeneità dei bisogni, che richiedono un’altrettanto ampia gamma di soluzioni abitative.

Se è innegabile che la vita in appartamento o in casa famiglia costituisca per molte persone con disabilità il sostegno più appropriato per il proprio Progetto di Vita, sembra altrettanto evidente che per altre occorrano soluzioni di maggiore tutela, in contesti comunitari che, proprio per la loro ampiezza, sono in grado di offrire ampie opportunità di relazione e di benessere, difficilmente fruibili all’interno di singole unità abitative. Forse, dunque, al posto di “de-istituzionalizzazione”, termine che evoca una sorta di battagliera univocità, si potrebbe usare quello di “appropriatezza”, più coerente con la logica del Progetto Personalizzato, e altrettanto in grado di ispirare le necessarie riforme.

Certamente il, o i decreti legislativi che seguiranno saranno l’occasione per superare gli aspetti ancora generici, e potenzialmente generalizzanti. L’auspicio è che il Governo apra ad un confronto più ampio, coinvolgendo, oltre all’associazionismo, anche le istituzioni secolari che nella loro storia hanno dato risposte alle persone con disabilità, anche quando i sistemi di Welfare ancora non esistevano.
In un dialogo costruttivo, sarà possibile anche mettere mano a quei dispositivi di autorizzazione e accreditamento che hanno eccessivamente standardizzato l’accoglienza alle persone con disabilità, rischiando di impoverire la ricchezza dei carismi generativi… che sia questa la vera chiave della cosiddetta de-istituzionalizzazione?

(*) docente di pedagogia all’Università Cattolica del Sacro Cuore e responsabile dell’Area sviluppo e formazione dell’Opera Don Orione