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“Le amarezze nella vita del prete” è stato il tema del discorso che il cardinale Angelo De Donatis, vicario generale per la diocesi di Roma, ha letto giovedì 27 all'incontro del clero romano, al posto del Papa che per motivi di salute non è riuscito a intervenire.

Nel testo, Papa Francesco tocca alcuni punti delicati della vita dei presbiteri oggi, sottolineando che “il vero problema che amareggia non sono le divergenze (e forse nemmeno gli errori: anche un vescovo ha il diritto di sbagliare come tutte le creature!), quanto piuttosto due motivi molto seri e destabilizzanti per i preti. Prima di tutto una certa deriva autoritaria soft: non si accettano quelli tra di noi che la pensano diversamente. Per una parola - sottolinea il Papa - si viene trasferiti nella categoria di coloro che remano contro, per un “distinguo” si viene iscritti tra gli scontenti. La parresia è sepolta dalla frenesia di imporre progetti. Il culto delle iniziative si va sostituendo all’essenziale: una sola fede, un solo battesimo, un solo Dio Padre di tutti. L’adesione alle iniziative rischia di diventare il metro della comunione. Ma essa non coincide sempre con l’unanimità delle opinioni. Né si può pretendere che la comunione sia esclusivamente unidirezionale: i preti devono essere in comunione col vescovo… e i vescovi in comunione con i preti: non è un problema di democrazia, ma di paternità”.

Il Papa ha anche voluto parlare dell’equilibrio richiesto al presbitero nel suo servizio alla comunità dove è stato assegnato dal vescovo. Ha parlato di una virtù pastorale, quella dell’ “equità”. “Equità - ha affermato - vuol dire tenere conto dell’opinione di tutti e salvaguardare la rappresentatività del gregge, senza fare preferenze. La grande tentazione del pastore è circondarsi dei “suoi”, dei “vicini”; e così, purtroppo, la reale competenza viene soppiantata da una certa lealtà presunta, senza più distinguere tra chi compiace e chi consiglia in maniera disinteressata. Questo fa molto soffrire il gregge, che sovente accetta senza esternare nulla. Il Codice di Diritto Canonico ricorda che i fedeli «hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa» (can. 212 § 3). Certo, in questo tempo di precarietà e fragilità diffusa, la soluzione sembra l’autoritarismo (nell’ambito politico questo è evidente). Ma la vera cura – come consiglia San Benedetto – sta nell’equità, non nella uniformità”.

Il Papa ha poi toccato un tema molto delicato. "Il presbitero - ha affermato - in questi ultimi anni ha subito i colpi degli scandali, finanziari e sessuali. Il sospetto ha drasticamente reso i rapporti più freddi e formali; non si gode più dei doni altrui, anzi, sembra che sia una missione distruggere, minimizzare, far sospettare. Davanti agli scandali il maligno ci tenta spingendoci ad una visione “donatista” della Chiesa: dentro gli impeccabili, fuori chi sbaglia!”.

“Comunque - ha poi notato - i peccati pubblici e pubblicizzati del clero hanno reso tutti più guardinghi e meno disposti a stringere legami significativi, soprattutto in ordine alla condivisione della fede. Si moltiplicano gli appuntamenti comuni – formazione permanente e altri – ma si partecipa con un cuore meno disposto. C’è più “comunità”, ma meno comunione! La domanda che ci facciamo quando incontriamo un nuovo confratello, emerge silenziosamente: “chi ho veramente davanti? Posso fidarmi?”. Non si tratta della solitudine: essa non è un problema ma un aspetto del mistero della comunione. La solitudine cristiana – quella di chi entra in camera sua e prega il Padre nel segreto – è una benedizione, la vera scaturigine dell’accoglienza amorevole dell’altro. Il vero problema sta nel non trovare più il tempo per stare da soli. Senza solitudine non c’è amore gratuito, e gli altri diventano un surrogato dei vuoti. In questo senso come preti dobbiamo sempre re-imparare a stare da soli “evangelicamente”, come Gesù di notte con il Padre”.