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Il quotidiano “Avvenire” del 12 dicembre scorso, nelle pagine dedicate ai temi di bioetica e salute, riferisce che durante l’ultima assemblea della Conferenza dei vescovi svizzeri (Cvs), a Lugano la scorsa settimana, è stato adottato il documento sul “Comportamento pastorale di fronte alla pratica del suicidio assistito”.

Si tratta di un testo di una trentina di pagine che contiene le linee guida per i sacerdoti e gli operatori pastorali che si trovano a contatto con i casi di suicidio assistito, in particolare per orientarli su come comportarsi con la persona che intende togliersi la vita ma che vuole un’assistenza spirituale, e anche con i familiari.
Nell’accompagnamento pastorale della persona che chiede il suicidio assistito - scrive la giornalista Simona Verrazzo - va sempre ricordato che la Chiesa cattolica non condivide questa pratica. «Il suicidio assistito – si legge nel testo – non deve diventare un servizio normale e riconosciuto socialmente». Ecco perché si stabilisce «il dovere di lasciare fisicamente la stanza dell’aspirante suicida nel momento stesso in cui assume la sostanza letale». «Questo – prosegue la nota – non significa abbandonare la persona ma che la Chiesa vuole testimoniare di essere sempre a favore della vita». I preti e gli operatori pastorali possono decidere caso per caso di stare vicino al moribondo nel momento del passaggio verso la morte, ma fino all’assunzione dei farmaci letali devono mantenere viva la speranza poiché la decisione è «reversibile». «Di fronte all’attuale tendenza a banalizzare il suicidio assistito» i vescovi ricordano come questo trasgredisca «tre doveri »: verso sé stessi, poiché contrario al comandamento dell’amore che obbliga ogni cristiano ad amare se stesso come Dio lo ama; verso gli altri, perché mina la carità nella società; e verso Dio, dato che la vita umana è un Suo dono.