La famiglia in Africa è un argomento di capitale importanza, perché come in ogni cultura anche in quella africana essa è considerata l’ambito nel quale l’individuo riceve la prima e fondamentale strutturazione della persona. Se ne è parlato presso la Casa Madre della famiglia guanelliana a Como, in una assemblea che ha dato voce ai Confratelli africani, nigeriani e congolesi, mettendosi in ascolto della loro cultura. Ne scrive don Davide Patuelli.
Rispondendo all’invito del Documento Finale del XVI Capitolo Provinciale della Provincia Sacro Cuore, tenutosi nel novembre del 2017, a favorire la conoscenza delle reciproche culture e dei processi di integrazione attraverso giornate di studio, poco prima del recente periodo natalizio, presso la Casa Madre a Como, l’assemblea dei Confratelli ha dato voce a quelli africani, nigeriani e congolesi, che vivono e operano nella nostra Provincia e si è messa in ascolto della loro cultura. Sette di loro, don François, don Joseph, don Justin, don George, don Anayo, don Eustace e fratel Jethro, servendosi di testi e di immagini, si sono passati il microfono e come sette conduttori di un telegiornale hanno trasmesso dei contenuti frutto di un lavoro, apparso fin da subito piuttosto intenso.
Hanno imperniato il loro intervento sul tema della famiglia: un argomento di capitale importanza, perché come in ogni cultura anche in quella africana la famiglia è l’ambito nel quale l’individuo riceve la prima e fondamentale strutturazione della persona. In questo modo hanno voluto mostrare che nelle loro persone traspare e si rende evidente una cultura respirata fin dall’educazione ricevuta nei propri nuclei familiari.
Un’ulteriore precisazione si è resa fin da subito necessaria. Per noi europei, il colore della pelle tende a unificare in modo indistinto; in verità, ci hanno detto, in Africa le culture nazionali differiscono, esattamente come in Europa, per cui un italiano, uno svedese ed un romeno provengono da estrazioni culturali differenti, pur essendo tutti di carnagione chiara.
Che cosa è emerso allora intorno alla famiglia? Anzitutto, la categoria “famiglia” in Africa evoca non soltanto l’appartenenza comune di pochi membri secondo il sangue, ma include anche il concetto del clan, della tribù, dell’affinità, della maternità. Questo concetto allargato della famiglia dimostra che, anche se il contenuto formale del termine “famiglia” è identico per l’Africa come per tante altre società, il modo di integrarlo nei contesti culturali è del tutto diverso. Ciò giustifica l’uso del termine “fratello” attribuito non solo a colui che è nato dagli stessi genitori ma esteso ad altri membri della parentela.
Intensa è la modalità comunicativa dell’affetto familiare. Esso non viene veicolato tanto a parole, né con le coccole, quanto con la testimonianza di vita di un genitore che è disposto a sacrifici pur di veder crescere il proprio figlio. Hanno detto: “Quando vedi, da bambino, che la tua mamma va al campo, fatica sotto il sole zappando la terra, ritorna con un peso sulle spalle, va a cercare l’acqua, trasforma a mano il granoturco in farina, accende il fuoco e cucina, a volte bruciandosi, e inizia ad imboccarti prima, e tutto questo senza lamentarsi senza rinfacciarti e qualificarti come ingrato quando ti comporti in modo meschino, allora tu capisci che quella persona ti ama”.
La famiglia è anche il luogo in cui si apprende a lavorare. Ed il lavoro è legato al discorso della sopravvivenza: chi non lavora non trova il “fufu” o “il gari” quotidiano. Secondo una norma generale, la divisione del lavoro fra i membri della famiglia avviene sulla base di due criteri: sesso e età. I maschi imparano il proprio mestiere in compagnia del padre, le bambine fanno altrettanto in compagnia della madre. Quindi, nella famiglia africana c’è spazio per tutti i membri: genitori, figli, nonni e nipotini, malati e sani, vecchi e giovani, lavoratori efficienti e membri disabili. Nei contesti contadini, poi, il lavoro non è generalmente subordinato, quindi non si ha da rendere conto a nessuno se si ha coltivato o no il proprio campo: dipende da ognuno capire che, se si lavora, si avrà il necessario per vivere.
Nel contesto africano, la donna ha un ruolo importante nella famiglia: generalmente è colei che provvede ai bisogni materiali della casa. Nel lavoro agricolo è soggetto centrale in tante tappe della produzione: la preparazione del terreno, la coltivazione, la raccolta, fino alla trasformazione in alimento. E tutto questo la donna lo compie con cuore di madre. La guida della famiglia spetta ovviamente ai genitori, ma questa si compie non senza l’apporto di tutti i membri: la complementarietà dei ruoli è essenziale per il buon andamento della famiglia. Ogni membro conosce il proprio ruolo: doveri ed obblighi spettano ai mariti, alle mogli, ai padri, alle madri e ai figli. La vita comunitaria viene posta in forte evidenza. La madre o la moglie viene apprezzata soprattutto come colei che semina amore, tenerezza, premure, calma e pace.
I bambini vengono considerati una benedizione di Dio. I problemi che sorgono in famiglia vengono risolti per mezzo del dialogo. Nel processo di dialogo e di riconciliazione si mette in rilievo l’importanza della dimensione comunitaria e del concetto della palabre. Questi due elementi sono risorse culturali nel processo della riconciliazione perché sono modelli radicati specificamente nell’antropologia africana e fondano la visione africana della persona umana. La palabre è una discussione che si svolge intorno ad un albero, considerato come luogo di raduno. Il responsabile del clan (lo zio materno nelle culture matriarcali e lo zio paterno nelle culture patriarcali) convoca il raduno e prende la parola per presentare l’obiettivo del raduno. Si apre uno spazio di ascolto reciproco che porta alla soluzione al problema. La forma circolare del raduno traduce bene la natura circolare (e non piramidale) della cultura. Il capo clan si considera come un facilitatore del processo che conduce alla risoluzione del problema.
Fondamentale è il ruolo della famiglia è la trasmissione della fede. La famiglia africana ha un forte senso del divino, ed il padre, in certe culture, viene visto come il sacerdote della famiglia. È considerato come colui che ha amorevole cura dell’unità familiare, è il punto di riferimento per il rispetto della tradizione e il collegamento con gli antenati nelle società patriarcali. In famiglia allora si impara che Dio esiste, che c’è una vita dopo la morte, che le persone che hanno vissuto bene durante la loro esistenza sono i protettori dei viventi. Questa comunione esistente tra i morti ed i viventi è molto forte nella cultura Igbo, in Nigeria: quando qualcuno muore, non si dice che è morto, ma che è andato, è partito. Ciò significa che la sua vita continua in un altro modo e luogo. Siamo grati ai nostri confratelli africani per il prezioso contributo che ci hanno offerto con questo loro lavoro, utile per una maggiore conoscenza delle loro persone e quindi vantaggioso per creare relazioni sempre migliori all’interno delle nostre comunità internazionali.