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di Tarcisio Stramare

Perfezionamento personale, sviluppo economico, avanzamento sociale conferiscono al lavoro una dignità unica. Eppure il lavoro non è solo fucina di virtù umane e cristiane individuali e sociali; esso è anche occasione di abbrutimento, di odio e di lotta. L'antico peccato, che ha incatenato la fatica al lavoro, esercita ancora la sua tirannia sul lavoro attraverso la sofferenza, l'oppressione, la rivolta, l'egoismo, l'ingordigia, lo sfruttamento, le divisioni, le contese. «L'uomo che mediante lo sviluppo industriale ha moltiplicato oltre ogni attesa i membri della società, li ha divisi in classi, e, come tutti sappiamo, ha fatto della società non una famiglia, ma un inevitabile campo di lotta, perciò sovente senza concordia, senza pace, senz'amore. I grandi valori del progresso, il pane, la libertà, la gioia di vivere, sono in perpetua contestazione, se il grande torrente di ricchezza, che scaturisce dal nuovo lavoro conquistatore e produttore, è confiscato da un duplice egoismo: quello che ripone nei beni temporali il solo e maggiore bene dell'uomo, anzi fa dell'uomo fine supremo a se stesso, errore ideologico, materialista; e quello che fa programma costitutivo della vita comunitaria la lotta radicale, esclusivista, fra le varie classi fra loro per il monopolio della ricchezza: errore sociale ed economico» (Paolo VI).

Il significato di san Giuseppe lavoratore

Potenti forze disgregatrici operano, dunque, nel campo del lavoro. Come nel campo del racconto evangelico, anche in questo il nemico ha seminato la sua zizzania. Come potrà il lavoro guarire da questo cancro progressivo e liberarsi dal veleno, che ne insidia la naturale finalità di essere fonte di sviluppo individuale e sociale?

Da molti secoli il grande riformatore san Benedetto ricorda all'umanità qual è l'antidoto che può salvare l'attività umana dal dissolvimento, che è proprio di tutte le realtà terrestri. In una brevissima formula, «ora et labora, prega e lavora», è compendiato il segreto, che garantisce al lavoro il suo valore e la sua nobiltà. Il lavoro esige la dimensione religiosa.

Cristo non ha redento solamente delle anime disincarnate, ma ha redento l'uomo nella sua totalità, anima e corpo. L'attività umana non è, dunque, esclusa dalla salvezza, perché Gesù è diventato solidale con noi in tutto: «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo. Ha lavorato con mani d'uomo, ha amato con cuore d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».

Ebbene, nessuno tra gli uomini, dopo Maria, è stato tanto vicino alle mani, alla mente, alla volontà, al cuore di Gesù, quanto san Giuseppe. Come bene affermò Pio XII, san Giuseppe è stato colui nella cui vita è maggiormente penetrato lo spirito del Vangelo. Se questo spirito, infatti, affluisce dal cuore dell'Uomo-Dio in tutti gli uomini, «è pur certo che nessun lavoratore ne fu mai tanto perfettamente e profondamente penetrato quanto il Padre putativo di Gesù, che visse con Lui nella più stretta intimità e comunanza di famiglia e di lavoro». Di qui l'invito permanente dello stesso Pontefice rivolto ai lavoratori: «Se voi volete essere vicini a Cristo, Ite ad Joseph (Gen 41, 55), Andate da san Giuseppe! L'umile artigiano di Nazaret non solo impersona per Dio e la Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie».

Questo umile artigiano di Nazaret, che nel nascondimento ha con il suo duro lavoro consentito a Gesù «di crescere robusto e pieno di sapienza» (cfr. Lc 2, 40), continua ancora a stagliarsi gigante nella storia dell'umanità per insegnare a tutti che non è la differenza dell'attività a definire la grandezza dell'uomo, ma, al contrario, tocca all'uomo rendere grande ciò che fa, attraverso la nobiltà dell'animo e l'esercizio di autentiche virtù.