di Tarcisio Stramare
Il mistero della redenzione è certamente connesso al mistero dell’incarnazione, il quale è storicamente sviluppato nella scena della famiglia di Giuseppe, a diretto contatto con la realtà quotidiana del lavoro e della fatica.
Gesù, il figlio di Dio fatto uomo, ha scelto San Giuseppe come suo presentatore al mondo. Giuseppe, a motivo del suo vero matrimonio con Maria, dalla quale nasce Gesù, e della propria discendenza davidica, trasmette a Gesù il titolo di “figlio di Davide”. Ma Gesù, oltre al titolo davidico, indispensabile per il suo riconoscimento di Messia, riceve da Giuseppe, come ogni altro figlio, quella dimensione umana concreta, che lo caratterizza, ossia «lo stato civile, la categoria sociale, la condizione economica, l’esperienza professionale, l’ambiente familiare, l’educazione umana» (Paolo VI). Scegliendo di essere considerato civilmente figlio di Giuseppe (Lc 3, 23), Gesù ha potuto ereditare il titolo regale di “figlio del fabbro” (Mt 13, 55).
Gesù non si è vergognato a fare da garzone nella falegnameria di Giuseppe e di rivestire la sua eccelsa dignità con l’umile tuta da operaio. Pur potendo esigere i titoli più elevati, Gesù ha scelto per sé, invece, il titolo più comune, più largamente condiviso dalla condizione umana, ossia quello di operaio.
Quella stessa materia che nel momento della creazione era uscita docile dal nulla a un comando della Parola divina, si incontra ora, nella bottega di Nazareth, con quella stessa Parola, fatta carne e diventata a sua volta docile alle leggi della natura e agli ordini di chi gli è maestro sul lavoro, Giuseppe. L’onnipotente artefice dell’universo si è fatto garzone di bottega. Noi non sappiamo se Gesù, divenuto adulto, abbia assunto un garzone per sé, dopo la morte di San Giuseppe; sappiamo però con certezza che egli è stato il garzone di San Giuseppe.
Fra le righe che riportano l’autorevole dottrina e gli strepitosi miracoli di Gesù, gli Evangelisti contengono anche quella non meno importante e stupefacente, dove è detto che Gesù «era sottomesso ai suoi genitori» (Lc, 51). Conoscendo la grandezza di Gesù, è più degna di meraviglia, ossia più “miracolosa”, questa sua umile sottomissione, che non i prodigi della sua vita pubblica.
Ebbene, se il nascondimento è stato il miracolo più prolungato dell’esistenza terrena di Gesù, Giuseppe ne fu il necessario strumento, attraverso una missione che egli non solo ha esercitato accanto a Gesù, ma addirittura sopra a Gesù.
L’umile professione di Giuseppe è stata l’ombra provvidenziale che, nel disegno di Dio, doveva consentire al mistero della redenzione di manifestarsi come un servizio per l’umanità. L’ombra di Giuseppe, che nasconde la presenza di Gesù a Nazareth, mostra la sua densità agli inizi della vita pubblica del Messia. Allora i suoi compaesani «si meravigliavano delle parole che uscivano dalla sua bocca e dicevano: Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4, 22); «Non è costui il figlio del falegname?» (Mt 13, 55). E questo era per loro motivo di scandalo (cf. v. 57).
Ma l’ombra di Giuseppe si prolungherà ancora nell’attività apostolica di Gesù. Quando egli affermerà: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo», i giudei obietteranno: «Non è costui Gesù il figlio di Giuseppe? Come, dunque, dice che è disceso dal cielo?» (Gv 6, 42).
La grandezza della legge del lavoro.
Tutti conosciamo l’importanza del lavoro sia nella vita individuale che sociale. Nella vita individuale il lavoro è indispensabile all’uomo per la sua crescita e il suo completo sviluppo. Il contatto quotidiano con la realtà, con le leggi della natura, con impegni precisi, con problemi continui, affina nell’uomo l’intelligenza, ne stimola la volontà, ne sviluppa le facoltà, ne promuove il senso del dovere e richiede un molteplice e diuturno esercizio di virtù, che sono sorgente di meriti civili e cristiani. In tale modo il lavoro apre all’uomo quella promozione, che lo porta al raggiungimento della sua perfezione naturale e soprannaturale. Tutti conoscono, al contrario, le conseguenze deleterie dell’inattività, della pigrizia e dell’ozio.
Se poi consideriamo il lavoro nel suo aspetto sociale ed economico, chi non conosce i beni che esso produce e il benessere che ne consegue? L’operosità umana consente una vita più agiata e assicura l’avvenire della propria famiglia e della comunità, divenendo in tale modo strumento di carità per sopperire alle necessità di chi non fosse nella possibilità, per età o per malattia, di provvedere a se stesso.