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Il pensiero della morte contribuisce a dare senso e dignità all'esistenza. L'articolo e i successivi sono scritti a quattro mani, con Cecilia Bisi esperta in cure palliative, che ci fa dono della sua esperienza.

di Vito Viganò e Cecilia Bisi

Parlare di morte non è proprio un argomento geniale. Eppure, è di quelli che conviene non perdere di vista. Certamente è un tema inquietante per una realtà come la morte, imprevedibile per il quando avverrà, e misteriosa per il come, con quel che verrà dopo. Di fatto se ne ha esperienza solo indiretta e parziale, come spettatori della morte altrui.

Per questo vi sono opinioni diverse e contrastanti in proposito. Per gli uni è l’inizio della vita vera, per altri è la fine di tutto. C’è chi la considera un passaggio pur faticoso verso la luce, mentre per altri è l’orrore del piombare nel nulla; per altri ancora è il timore di un giudizio divino per quel che si è fatto in vita.

Ci fa comunque bene tener presente che il nostro vivere avrà una fine con la morte. Non solo l’ascesi cristiana, ma anche molte altre forme di spiritualità lo raccomandano. Senza farla diventare un’idea assillante, è un buon esercizio di realismo tener conto che il tempo presente è comunque, sempre e per tutti, un momento possibile per morire. E questo pensiero contribuisce a orientarsi meglio sulle cose a cui dedicarsi, su come dare senso e dignità all’esistenza e spendere con giudizio il momento attuale.

Parleremo in due della morte e del morire, avendo chiesto a Cecilia, esperta in cure palliative, di farci dono della sua esperienza. Ecco come si presenta.

Sono infermiera specializzata in cure palliative, ambito nel quale ho lavorato negli ultimi vent’anni. Ho iniziato la mia professione in pediatria: in sala parto ho scoperto la fragilità e la forza del nascere, la tensione del difficile passaggio e la gioia del primo respiro. Sono stati ancora i bambini, negli anni successivi, che mi hanno insegnato a vivere trasparenza e autenticità, a non nascondermi dietro le mie paure, ad affrontare la verità, anche quella difficile da dire e da vivere.

In Ecuador ho lavorato in un centro per il controllo della malnutrizione e sono stata confrontata in modo molto duro con la morte, quella dei bambini. Le mamme che avevano perso uno o più figli hanno dato senso e coraggio al mio lavoro. In seguito l’accompagnamento a domicilio di un sedicenne, in fase terminale, mi ha aperto le porte alle cure palliative, al valore di stare accanto e curare chi muore. È vero che la morte fa paura e la si vorrebbe ignorare. A contatto con le persone in fin di vita e con le loro famiglie ho scoperto che l’emozione del primo respiro assomiglia molto a quella dell’ultimo soffio. Ho capito che osare guardare negli occhi il morente alimenta la voglia di vivere pienamente ogni giorno che mi resta da vivere. (Cecilia)

Si è scelto di parlare di morte e, in modo più specifico, del tempo immediatamente precedente. Lo si farà su questa rivista, che è stata fondata per tenere viva una “Crociata” di preghiere per i morenti, realizzando un’idea nata dal buon cuore di don Guanella.

Il periodo che precede la morte si chiama fase terminale, un tempo più o meno lungo, da vivere con dignità anche se le condizioni si fanno sempre più penose. E comunque è un tempo che costituisce per tutti una novità, una esperienza inedita nel proprio vivere. Quel che si sa di certo è che avrà un esito fisso, ma non databile.

Si suggerisce di prepararsi alla fine, ma restano sempre tante cose interessanti da vivere, per cui non è facile pensarci davvero. Il credente che muore ha bisogno di preghiera come sostegno alla difficoltà e alla pena collegata con tale fase dell’esistenza. La fase conclusiva, oltre che essere un evento emotivamente intenso, è soprattutto una vicenda fisica, un organismo che gradualmente si guasta fino a perdere ogni filo di energia vitale e di autonomia. La persona nella fase terminale del suo vivere ha bisogno di presenze attente e sollecite al compito di alleviarne sofferenze e disagi, per affetto, per dovere, per umanità.

Nel corso d quest’anno si proporranno riflessioni su un aspetto o l’altro tra i modi dignitosi di accompagnare un paziente terminale alla sua fine. Siccome si muore attorno a noi, può capitare di essere coinvolti nell’assistenza a un morente, sia un familiare o un estraneo, per professione o per prossimità umana. Val la pena farlo col buono spirito, con il calore della propria umanità e anche con una competenza adeguata, non sempre facile da avere in mezzo ai risvolti emotivi

La fase terminale è un passaggio che il morente fa da solo, ma anche con momenti forti di condivisione con le persone care o con i curanti nella struttura in cui si trova. C’è sofferenza, paura, tristezza, ma sono possibili momenti intensi, anche di gioia, che rendono il percorso più leggero e sereno. Ho impresso nel cuore il ricordo della signora Gina e di come ha saputo orchestrare il suo addio alla vita. Affetta da un tumore polmonare, col respiro sempre più penoso, malgrado medicamenti e ossigeno, ha chiesto ai curanti di organizzare una festa per la famiglia nel reparto di cure palliative, dove da tempo era accolta. Nel giorno stabilito tutta la famiglia era presente, tre figli e otto nipoti tra dieci e ventun’anni. Dopo un buon pranzo, allietato da canti e risate, ha chiesto di essere accompagnata in camera e di incontrare singolarmente i famigliari. È deceduta quello stesso giorno, alle 17.00, nella poltrona dove stava riposando dall’evidente fatica della giornata, con le labbra atteggiate in un ultimo sorriso sereno. (Cecilia)