di Alba Arcuri
A Chieri, alle porte di Torino, un Hospice cattolico, nato sulla radice buona del Cottolengo. Vengono accolti i malati terminali per fornire loro
assistenza terapeutica, umana, spirituale. È la “buona morte” per la quale preghiamo anche noi ogni giorno.
«Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio». Così si legge nel Giuramento di Ippocrate, il medico greco, padre della medicina. Parole che suggeriscono una riflessione nel dibattito sempre più serrato sull’eutanasia e sul fine vita.
Eutanasia, dal greco EU e THANATHOS, letteralmente la buona morte, nel suo senso originario indica un accompagnamento nella fase finale, piuttosto che il porre fine, con un atto volontario, alla vita stessa. Ed è proprio dall’esigenza di accompagnare, di alleviare la sofferenza, di dare dignità alle ultime fasi della vita che nasce l’esperienza degli Hospice cattolici.
In Italia ce ne sono 25, distribuiti in maniera non equilibrata fra nord (dove ce ne sono 18) e centro-sud, dove in tutto ce ne sono 7. L’ultimo Hospice cristiano è stato inaugurato lo scorso settembre 2022 a Chieri, alle porte di Torino, in quella struttura voluta da san Giuseppe Benedetto Cottolengo che già da quasi due secoli si occupa di alleviare le sofferenze dei malati e disabili. «In questo grande dibattito sull’eutanasia, noi abbiamo deciso di percorrere un’altra strada – ha detto padre Carmine Arice, superiore generale della Piccola Casa della divina Provvidenza, il giorno dell’inaugurazione – non ci preoccupiamo di aiutare la gente a morire, ma ci preoccupiamo di aiutare la gente a vivere ogni stagione della propria esistenza».
L’Hospice di Chieri è una struttura che è stata realizzata con il contributo di privati e dell’Arcidiocesi di Torino ed è accreditata presso il Servizio sanitario nazionale. Una casa «bella e confortevole». Ventuno sono i posti letto per i pazienti che necessitano di cure palliative e di terapia del dolore, cinque équipes formate da medici, infermieri, psicologi, operatori socio-sanitari, terapisti della riabilitazione e assistenti spirituali, a cui si affianca una rete di volontari, per fornire assistenza completa e adattata a ciascuno, dal punto di vista terapeutico, umano, spirituale. Parenti e amici possono visitare i malati terminali di giorno e anche di notte. Una poltrona-letto nella stanza consente a un familiare di fermarsi a dormire, accanto al proprio caro. «La disperazione nasce quando si resta soli, quando non si hanno accanto persone che ci amano e ci sostengono», ha detto l’arcivescovo emerito di Torino mons. Cesare Nosiglia, presente all’inaugurazione dell’Hospice insieme al nuovo arcivescovo mons. Roberto Repole.
È un’esperienza non unica, che nasce nel segno di un documento pensato e voluto dal Tavolo di lavoro costituito presso l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei fin dal 2018 e che poi ha visto la luce nel 2020. «L’Hospice è un luogo che apre alla speranza, perché mai come in prossimità della morte occorre celebrare la vita, rispettarla, proteggerla e assisterla», si legge nel documento. Speranza e non disperazione: quasi una contraddizione per chi si avvia verso la morte.
Nel documento sono contenute le linee-guida degli Hospice cattolici e di ispirazione cristiana, utili per chi assiste il malato morente: amorevolezza, condivisione, competenza. Il senso del documento è di «dare dignità alla persona affinché il tempo che rimane da vivere non sia un’attesa della morte, bensì un tempo da colmare di senso e di vita». Ed è questo forse uno dei punti che contraddistinguono l’Hospice cattolico. Senza forzature: tra gli aspetti salienti nel documento l’invito a rispettare le convinzioni religiose e la sensibilità spirituale di ognuno, dando la possibilità al malato di avere servizi religiosi e riti in linea con le proprie convinzioni, anche dopo il decesso.
Resta punto fondamentale la sacralità della vita: né accanimento terapeutico e neppure morte procurata e suicidio assistito.