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San Massimiliano Kolbe 

di Maurizio Schoepflin

«Una mattina stavo scavando il letame da una fossa per portarlo nei campi. Arrivò una guardia con un cane e domandò al prigioniero che riceveva il letame e lo buttava fuori perché ne caricasse così poco, e senza dargli il tempo di rispondere cominciò a bastonarlo e ad aizzargli contro il cane, che lo morse ripetutamente. Ma l’altro se ne stava calmo, senza lasciarsi sfuggire un lamento. In tedesco disse anzi di essere un sacerdote, il che fece andare in bestia l’aguzzino, che lo colpì ancor più duramente.

Dopo la morte del frate, che fece notizia in tutto il lager, rievocando l’episodio con alcuni amici, venni a sapere che quel prigioniero era proprio Kolbe». Questo è il racconto fatto da Francesco Gajowniczek, l’uomo che fu salvato dalla morte da Massimiliano Maria Kolbe, il quale, senza esitazione, mise in pratica l’insegnamento di Gesù, che invita a dare la vita per gli altri, ad amarli di un amore totale, che non teme neppure il sacrificio di sé.

La Pia Unione del Transito di san Giuseppe non solo ha avuto come associato padre Kolbe, ma lo ha avuto come zelatore del culto a san Giuseppe e soprattutto come propagatore verso i sacerdoti della “Messa perenne” affinché entrassero in questa mistica catena di preghiere per i morenti. Questa catena ininterrotta di celebrazioni  eucaristiche, nata nella Pia Unione del Transito nel 1917, durante la Prima Guerra mondiale a favore delle migliaia di giovani che giornalmente morivano al fronte. L’iniziativa fu largamente caldeggiata da Benedetto XV, che si era impegnato a celebrare per i morenti nel primo giorno di ogni mese. La Provvidenza ha voluto che fosse padre Kolbe, sostenitore della “Messa perenne” a beneficiare gli aiuti di san Giuseppe e dalla bontà misericordiosa di Dio nel condividere i drammatici momenti prima della sua morte con i compagni di prigionia nel campo di concertamento.

La “Messa perenne” continua ad essere praticata  da migliaia di sacerdoti che giornalmente celebrano per i morenti ed è un atto meritevole di fraterna comunione con chi è chiamato a oltrepassare il confine della vita terrena.

Ma chi era Fra Massimiliano? Era un francescano, nato a Lodz, in Polonia, nel 1894. Dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e l’invasione del territorio polacco da parte delle truppe tedesche, nel 1941 venne arrestato e internato nel campo di concentramento di Auschwitz. Qui fu assegnato ai lavori forzati. Si ammalò di broncopolmonite, ma, una volta guarito e dopo un breve periodo passato nel reparto degli invalidi, venne nuovamente trasferito ai lavori forzati, nel famigerato blocco 14. Qui accadde il fatto decisivo che lo riguarda: un prigioniero di quello stesso blocco era riuscito a fuggire e per rappresaglia sarebbero stati scelti dieci suoi compagni da far morire di fame in un bunker sotterraneo. Si aspettò ancora un giorno, ma il fuggitivo non fu trovato. Allora tutti i prigionieri vennero lasciati sotto il sole cocente, dalla mattina alla sera. Il giorno dopo il comandante scelse i dieci condannati, tra i quali Francesco Gajowniczek, che subito si disperò, gridando che era un padre di famiglia. Fu allora che Kolbe si offrì di andare a morire al suo posto, meravigliando tutti, compresi gli aguzzini. Il 14 agosto, dopo tre settimane, in quel bunker erano ancora vivi in quattro, tra cui il frate, l’unico ancora cosciente. Un’ iniezione di fenolo mise fine alla loro vita. Un testimone ha raccontato che Kolbe, pregando, offrì il braccio al carnefice, che gli iniettò il veleno: lo trovarono appoggiato al muro, con il volto sereno, quasi raggiante. Massimiliano Maria Kolbe fu beatificato da Papa Paolo VI nel 1971 e canonizzato da San Giovanni Paolo II nel 1982.