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Scintille divine nelle bellezze della natura

a cura di Carlo Lapucci

Riconoscere il mondo in cui si vive è una di quelle necessità vitali per non esistere come estranei in un ambiente che pian piano ci diventa ostile.

Il Signore, quando pose Adamo sulla terra lo mise in un giardino e gli fece riconoscere le creature in modo che fosse dato loro un nome (Genesi II, 19) e fossero amiche al nuovo essere della Creazione.

Oggi i bambini conoscono piante e animali ai supermercati nella condizione peggiore in cui si possano presentare: oggetti dell’alimentazione, sradicati dal loro ambiente, ormai senza vita. Per questo un angolo in cui si ritrovi un po’ la storia della lunga amicizia, della conoscenza millenaria, dello specchio metaforico e spesso della grande dignità simbolica che rivestirono in certi tempi alcune piante, può restituire un po’ della conoscenza diretta della natura che, a dall’inizio della rivoluzione industriale ci viene sottratta via lentamente.

Pochi sanno perché non di rado nei dipinti il Bambino Gesù in braccio alla Vergine tenga in mano un frutto o un fiore e pensano che la cosa sia casuale. La pesca, ad esempio, stava a rappresentare la verità e come tale è simbolo di Cristo che di se stesso dice: Io sono la via, la verità, la vita. 

Il pesco (Amygdalus persica o Persica vulgaris, delle Rosacee) è pianta di non grande altezza, 4 – 5 metri, con foglie lanceolate, che il nome dice originario della Persia, ma pare provenga dalla Cina. Si narra che fu portato in Grecia dalla spedizione orientale d’Alessandro Magno. È coltivato in molti orti e giardini, presso le abitazioni nei terreni che non sono in climi rigidi. Perché spande precocemente i fiori rosa mentre è ancora senza foglie alla fine dell’inverno, dopo il mandorlo e l’albicocco, in genere nel febbraio - marzo è annunciatore della Resurrezione.

I cristiani presero dal paganesimo l’immagine della pesca unita a una foglia, usata dall’iconografia per indicare la sincerità delle parole (la lingua: foglia) che scendono direttamente dal cuore (il frutto) e quindi viene ad essere il segno della Verità. Avverte Plutarco che la lingua unita al cuore simboleggia la sincerità di quel che viene detto.

Il frutto era consacrato ad Arpocrate, il dio egizio Horus che i Greci posero nel loro Olimpo come dio del Silenzio. Veniva infatti raffigurato come un bambino con un dito davanti alla bocca nel gesto con cui si invita a fare silenzio, tacere le cose segrete, controllare la lingua, meditare. L’asterigma veniva posto spesso nelle stanze del monasteri dove doveva essere osservato il silenzio.