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Thursday, 16 June 2011 14:06

Rubare è sempre uccidere la gioia di vivere Featured

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di Ottavio De Bertolis

15/* I comandamenti: dieci Parole per restare liberi. Non rubare

Proseguiamo la nostra riflessione sulle dieci parole che ci rendono liberi. Il settimo comandamento dice: “non rubare”, e con questo ognuno di noi si sente esentato da ogni colpa. Infatti nessuno di noi è mai andato a rapinare una banca, o a borseggiare le vecchiette sull’autobus. Ma è evidente che il comandamento, o, meglio, la parola, ha un significato ben più pregnante.
Innanzitutto, vorrei osservare che se ne parla abbastanza poco. Di fatto, mentre il sesto comandamento, quello sulla castità, è sentito come veramente obbligante, una sorta di spauracchio dal quale dipende o no l’essere in stato di grazia, sul settimo si sorvola abbastanza, come se al Signore non fossero gradite le virtù “pubbliche”, ma solo quelle “private”.

E non sto parlando dei furti o malversazioni compiute da uomini politici: di quelle non me ne interesso, perché voglio parlare a persone normali, come noi, appunto. In realtà, il “non rubare” riguarda appunto il nostro rapporto con gli altri attraverso quella particolare mediazione che sono le cose, o i beni, di questo mondo (denaro, ma anche oggetti veri e propri), e per questo ho parlato di una virtù “pubblica”. Dovrebbe essere chiaro che il pagare le tasse non è opzionale, così come il fare onestamente la fattura o il compilare senza sinuosità la denuncia dei redditi o i libri contabili: eppure, di fatto, non lo è, ed è un dato di fatto che queste cose sono sentite appartenere di più al nostro rapporto con lo Stato che non con il Signore. Ma anche Gesù ha voluto pagare il tributo a Cesare, per lui e per Pietro, e ha affermato che va reso a Cesare quel che è di cesare, e a Dio quel che è di Dio. In realtà, pagando le tasse e adempiendo i nostri obblighi fiscali, contribuiamo al benessere comune, cioè al bene di tutti, e questo è un compito grave, al quale non possiamo arbitrariamente sottrarci. Regolarizzare i rapporti con le persone che lavorano presso di noi è un obbligo moralmente forte: così facendo infatti aiutiamo le persone ad uscire da rapporti fragili e a costruirsi un futuro più certo. Chiaramente il lavoro in nero è una forma di sfruttamento del più forte sul più debole: questi, data la sua debolezza, sarà costretto ad accettare, ma viene mantenuto nella sua inferiorità. Il senso dunque della parola “non rubare” è quello di non sottrarre al povero (cioè colui che ha meno mezzi di me) la possibilità di vivere una vita più stabile, meno esposta ai rischi, in ultima analisi più degna di un uomo. D’altra parte, noi accetteremmo di subire, noi o i nostri figli, certe situazioni ricattatorie? Ricordo un mitissimo sacerdote, una santa persona, quando ero studente a Padova. Proprio lui un giorno a Messa disse: “quanto facciamo pagare l’affitto agli studenti della nostra città?”. Stava commentando le parole di Gesù: “Via, lontano da me, maledetti, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare”, con quel che segue. Così lo sfruttare la situazione di fatto di debolezza di una persona, è rubare, semplicemente. Non è pensabile che un posto letto in una città costi quel che viene fatto pagare normalmente: si vede che siamo normalmente ladri. Così, nello stesso senso, mi ricordo che, quando ero cappellano in una parrocchia, mi capitava di vedere gli stanzini, o i sottoscala, nei quali venivano messi badanti e portinai, dai loro ricchi e “pii” datori di lavoro: noi lo accetteremmo per i nostri figli?
Vediamo dunque che il “non rubare” non riguarda solo quelli che siamo abituati a considerare ladri: all’occasione, come dice il proverbio, tutti siamo pronti a diventarlo. Eppure la Scrittura dice di non angariare gli operai, di restituire il pegno ricevuto, di dare la giusta mercede, o compenso, ai propri dipendenti, di non approfittare di uno perché è povero.
In generale, il settimo comandamento ci apre a considerazioni molto pratiche: che peso ha la carità nella mia vita? Non ho mai sentito in tanti anni una persona che si confessasse di non avere dato ai poveri l’equivalente di un giorno delle sue vacanze. Non dico che non bisogna fare vacanza, ci mancherebbe: ma se anziché fare una o  due settimane, si facesse un giorno in meno, e ci si ricordasse dei poveri, credete che il Signore non benedirebbe quella famiglia? Ci vuole così poco per ottenere la benedizione di Dio: non perché la compriamo, si intende, ma perché Dio ha compassione di chi ha compassione. E la compassione si vede dalle cose, dai soldi, come li spendiamo e a chi li diamo, di chi ci ricordiamo e di chi non ci ricordiamo. Il bene che non abbiamo fatto perché rinchiusi nel nostro egoismo, è un furto che abbiamo commesso.

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