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Santo moderno di nome Giuseppe, il beato Pino Puglisi diventa strumento di riconciliazione. L’odio mafioso versa il suo sangue e gli dona l’aureola del martire

di Corrado Vari

«Signore, che io sia strumento valido nelle tue mani per la salvezza del mondo». Questa la semplice invocazione stampata sull’immaginetta per la prima Messa di don Giuseppe Puglisi (1937-1993), martire per mano della mafia. Proclamato beato nel 2013, viene ricordato il 21 ottobre, giorno del suo battesimo. Veramente questo nostro contemporaneo in oltre trent’anni di ministero sacerdotale è stato strumento fecondo nelle mani del Signore.

Giuseppe nasce il 15 settembre 1937 nel quartiere Brancaccio di Palermo, terzo dei quattro figli di una modesta famiglia di artigiani: calzolaio il padre, sarta la madre. Entra in seminario a sedici anni. Ordinato sacerdote il 2 luglio 1960, poco dopo è viceparroco e cappellano nel capoluogo siciliano; da subito si impegna nel lavoro educativo con i giovani, ma anche in iniziative a sostegno delle famiglie più povere e disagiate. Nel 1962 inizia a insegnare religione, ma anche matematica, lavorando in varie scuole fino al giorno della sua morte.

In tutta la sua vita – vissuta poveramente – accoglie con docilità qualunque incarico gli venga affidato, svolgendo fino in fondo, senza mai risparmiarsi, anche quelli che per altri potrebbero essere meno graditi. Come quando nel 1970 è nominato parroco di Godrano, paesino di montagna dilaniato da una faida tra famiglie che ha prodotto numerosi morti, dove da anni odio e divisione segnano la vita quotidiana. Qui don Giuseppe – o meglio don Pino, o anche “3P” (Padre Pino Puglisi), come amichevolmente lo chiamavano i suoi studenti – opera con pazienza, educando al perdono e promuovendo iniziative pastorali che condurranno la comunità ad una pacificazione che qualcuno non ha esitato a definire un miracolo.

«Pastore secondo il cuore di Gesù, insigne testimone del suo Regno di giustizia e pace, seminatore evangelico di perdono e riconciliazione», così lo ha definito papa Francesco. E don Puglisi affermava: «Quando il cuore di una persona si arrende a Dio, quando gli dice di sì, allora viene il Regno, allora Dio regna».

Nell’estate del 1978, nominato prorettore del seminario minore di Palermo, egli lascia Godrano. Poco dopo diventa anche direttore del Centro diocesano vocazioni e in seguito di quello regionale. Per anni in quest’ambito, oltre che a scuola, si dedica con passione al lavoro con i giovani, senza mai dimenticare la vicinanza ai più sfortunati: per molti di loro egli è padre affettuoso, guida sicura, indimenticabile compagno di strada.

«Per obbedienza e per amore», come dice ai sacerdoti suoi amici, nel settembre 1990 accetta la nomina a parroco di San Gaetano, nel quartiere Brancaccio in cui è nato. Anche qui don Pino non è altro che «essenzialmente ed unicamente un prete» (come viene definito nell’omelia per la beatificazione), in mezzo alla gente e ai suoi problemi, uno dei quali – ma non l’unico – è la soggezione al dominio della mafia, che in quel quartiere ha una delle sue roccaforti e attinge con facilità alle situazioni di povertà e di degrado per reclutare nuovi affiliati.

A Brancaccio, “3P” realizza iniziative per il miglioramento delle condizioni di vita delle famiglie, per sostenere l’educazione dei giovani, per spingere le autorità a intervenire e mitigare il disagio sociale. Nel 1991 apre il Centro Padre Nostro, tuttora attivo, luogo di evangelizzazione e promozione umana, di ascolto, di educazione e di qualunque iniziativa che aiuti la gente a “camminare da sola”.

“Padre Nostro” anziché “cosa nostra”: questa è la prospettiva che viene offerta ai giovani del quartiere: essere figli di un Padre che dà la vita e offre suo Figlio per la nostra salvezza, anziché affiliati a padrini che danno la morte a chi si oppone al loro predominio. È innanzitutto questo che sta a cuore a don Pino, non di per sé la lotta alla mafia o la soluzione dei problemi sociali. Dice infatti di sé: «Non sono un biblista, non sono un teologo né un sociologo, sono soltanto uno che ha cercato di lavorare per il Regno di Dio».

Non offriva solo un richiamo alla legalità, quindi, ma una proposta educativa, l’esperienza di vera libertà generata dall’annuncio cristiano; per tutti, ma innanzitutto per i più poveri, deboli e sfortunati, che più facilmente possono essere attratti dalle sirene del denaro facile, frutto della violenza, dalle lusinghe di un potere basato sul ricatto e sulla sopraffazione. Del resto, per don Pino il pericolo non è tanto l’organizzazione mafiosa, ma «la mentalità mafiosa, che è poi qualunque ideologia disposta a svendere la dignità dell'uomo per soldi».

Il lavoro di “3P” e dei suoi amici comincia a far intravedere alla gente la possibilità di una vita diversa. Le sue iniziative, le sue parole dure (ma sempre aperte al dialogo) contro la violenza e le organizzazioni criminali cominciano a dare fastidio, tanto da indurre la locale cosca mafiosa dapprima ad avanzare intimidazioni contro il parroco e i suoi collaboratori, poi a decretare la morte del sacerdote.

La sera del 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno, don Pino viene assassinato davanti al portone di casa con un colpo di pistola. Un istante prima, egli saluta i sicari con un grande sorriso, dicendo: «Me l’aspettavo». Un sorriso che ha sempre illuminato gli incontri con chi lo ha conosciuto e nel quale «c’era una specie di luce». Qualche anno dopo il suo assassino dichiara: «Quel sorriso me lo ricordo sempre». Quel sorriso – espressione della letizia cristiana anche davanti alla morte – ha contrassegnato don Giuseppe Puglisi proprio nel momento in cui da “strumento” è diventato “frumento”, chicco di grano che morendo porta molto frutto.

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