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di Paolo Antoci

La Sacra Famiglia, giustamente, viene additata come modello delle famiglie migranti. Prototipo delle famiglie perseguitate a causa dell'odio e della violenza. Icona dei rifugiati e degli esiliati. Attualmente il brano evangelico della fuga in Egitto, della permanenza e del ritorno dall'Egitto viene richiamato e attualizzato più che mai nell'epoca contemporanea e dalla comunità ecclesiale odierna.

C'è un passaggio non secondario che si trova al versetto 23: «Giuseppe, avendo paura di andarvi [in Giudea]... si ritirò nelle regioni della Galilea». Quell’avere paura di Giuseppe lo rende ancora più giusto. Alla debolezza umana che lo porta ad avere paura, egli responsabilmente prende, ancora una volta, una decisione per il bene della sua famiglia. Cambia percorso. E fa bene. Un altro sogno ne dà prova; come a dire che: «lecita era la tua paura, buona fu l'intuito di cambiare strada, Dio ti dà conferma e puoi procedere».

Forse sarà una forzatura al testo, un'interpretazione un po' strana, e non mi stupisce se qualcuno obietterà duramente e animatamente.

Giuseppe, betlemita di origine, giudeo di sangue, dopo qualche anno esule in terra straniera, non forzò gli eventi, non si oppose alle autorità, non reclamò insistentemente diritti;

lo poteva fare, sicuramente, ma alle grida di protesta scelse il silenzio e la riflessione, all’assecondare gli istinti e gli umori ascoltò la voce dei sogni rivelatori, la voce interiore della

coscienza e le mozioni dello Spirito di discernimento che lo condussero a Nazareth, in

Galilea, sano e salvo.

Molti nostri migranti non sono cristiani, è vero, e dunque questa scena biblica non possono mai conoscerla, ma la riflessione la giro ai cristiani, a quelli che guardano la Santa Famiglia come modello delle famiglie migranti. è una riflessione per vedere da un’altra angolazione, da un’altra prospettiva, il fenomeno migratorio, oggi problematica dagli animi accesi.

Debellare le ingiustizie, soccorrere, accogliere, garantire dignità e sicurezza alla vita umana, sono sicuramente delle priorità per una comunità civile e cristiana. Discutibili e divergenti i modi come applicare questi principi etici e religiosi, purchè si applichino. Insomma, intervenire sul sociale è sempre un bene. Ma non dimentichiamo che dietro a queste tribolazioni della vita, in queste tristi storie di persone e di popoli, si nascondono altri segni e significati che forse proprio i cristiani, in una cultura secolarizzata e laica, non vogliono riconoscere e accettare, perdendo il senso e l’orientamento teologico ed escatologico che essi vogliono rivelare.

Le persecuzioni in cui incorrono i migranti sono molte e di ogni tipo, violente fisicamente e/o violente psicologicamente; il martirio, la tribolazione viene superata non solo dalla eroicità fisica di uscire vivi da uno sbarco arrivando in un approdo qualsiasi, ma anche dall’eroicità dell’esercizio della virtù della pazienza, della stessa opera di misericordia spirituale, cioè quello di sopportare persino il rifiuto di una Nazione e andare oltre per trovare pace e serenità per sé e per la propria famiglia. Lasciare tutto, rischiare tutto, fare di tutto, anche quello di cambiare rotta, anche se questo comporta altri sacrifici, altri tempi, altri imprevisti, altre paure.

Eppure il pio israelita Giuseppe, uomo giusto, ha confidato e si è fidato della Provvidenza – un’altra sconosciuta al mondo occidentale e ricco - facendo sue le parole del salmista: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo» (Sal 126). Il simbolo del ‘seme’ non fa riferimento solamente al regno vegetale, ma anche all’uomo. E la discendenza, sono i figli che costano sacrifici, ma sono segno di speranza dando anche soddisfazioni e gioie. E Giuseppe si mosse per il suo figlio Gesù, la speranza e la gioia della salvezza dell’umanità. Nel Nuovo Testamento le Beatitudini di Matteo riflettono la logica di questo proverbio, mentre la beatitudine: «Beati quelli che sono nel pianto perché essi saranno consolati» (Mt 5, 4) ne è una ripresa letteraria. Gesù stesso si ispirerà più avanti a questo detto caricandolo di sfumature personali, quando, durante l’ultima cena, dirà ai suoi discepoli: «Voi piangerete e gemerete, ma il mondo si rallegrerà. Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia» (cf. Gv 16,20).

E allora, l’immagine biblica e iconografica della Santa Famiglia migrante non deve essere l’immagine del solo pietismo, della commiserazione, dei poveri sofferenti che fanno pena; sia anche l’immagine della soluzione, del trovare altre vie d’uscita, del non farsi vincere dall’abbattimento; sia l’immagine della speranza, della buona notizia, della bella notizia. Lo sia per noi cristiani che non siamo migranti e lo sia se – malauguratamente – potremmo esserlo in avvenire. Per molti migranti la speranza è l’Italia o la Francia o la Spagna? Che ben venga, me lo auguro. Ma se i tempi e le politiche non lo permettono perché ci sono gli ‘Archelao’ del momento, allora, non si escludano altre scelte risolutive, si intraprendano altre decisioni coraggiose, seppur sacrificanti. Il porto sicuro può essere un’altra terra dove Dio, ad Abramo, a san Giuseppe, indicò successivamente, e ivi queste persone dimorarono. Capiamolo noi, facciamolo comprendere per vie politiche, culturali, sociali ed ecclesiali, agli altri. D’altronde, non è per niente scontato che riusciamo a garantire un certo benessere a queste persone che credono di trovare chissà cosa qui da noi, anzi le delusioni in tal senso non tardano a rivelarsi.

La Sacra Famiglia riuscì nel suo ‘Esodo’ a salvarsi dalla persecuzione di Erode e a prendere le distanze dalle presunte minacce di Archelao. Quella paura di Giuseppe fu risolutiva. Cambiò infatti meta. Alla logica, a volte dal sapore ideologico, di un’accoglienza a tutti i costi, quasi sregolata e incontrollata, si potrebbe optare ad altre soluzioni nazionali e internazionali più confacenti e dignitose per la comunità accolta e per quella che accoglie. Basterebbe non illudere con motivazioni ideologiche chi ha bisogno di accoglienza e chi potrebbe/dovrebbe accogliere.