Due interpretazioni del sogno in Basilica e all’entrata della Pia Unione
di don Lorenzo Cappelletti
Al cosiddetto “Sposalizio della Vergine” segue, come seconda scena del ciclo giuseppino, che si snoda sulle vetrate della navata sinistra della Basilica di San Giuseppe, la rappresentazione di un sogno di san Giuseppe (cm 362 x 136). Come si sa, nel Vangelo di Matteo si parla di ben quattro sogni di san Giuseppe (cfr. Mt 1,20; 2,13; 2,19; 2,22).
Qui viene rappresentato il primo di essi. «Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”» (Mt 1,18-21).
La composizione, data la forma allungata della vetrata, si sviluppa ovviamente tutta in verticale. Nella parte più bassa, seduto in un interno, è mostrato san Giuseppe che si è addormentato con le braccia conserte e la testa piegata all’indietro. Questa posizione fa sì che i suoi occhi chiusi sembrino “guardare” in sogno, del tutto naturalmente, ciò che sta sopra la sua testa: l’angelo che, librandosi a mezza altezza, con l’indice rivolto verso l’alto gli addita la Vergine Maria; ella è mostrata inginocchiata in dimensioni più piccole, entro una nuvoletta, con le mani giunte e gli occhi bassi in atto di umiltà, mentre viene investita da due fasci di luce dorata che fuoriescono da un tondo, al centro del quale campeggia la simbolica colomba dello Spirito Santo.
È interessante riflettere sui mezzi iconografici che hanno consentito di esprimere il brano citato del Vangelo di Matteo, in modo che risultasse perfettamente intellegibile attraverso questa semplice composizione figurativa. Innanzitutto, la dimensione e la collocazione dei personaggi mostrano con tutta evidenza i due diversi piani dell’azione. Mentre san Giuseppe e l’angelo hanno dimensioni maggiori e fra loro uguali, mostrando in primo piano ciò che si svolge al presente in un interno, le dimensioni ridotte della Vergine Maria — la quale appare, oltre una tenda, nel cielo, entro una nuvoletta di separazione che la distingue da ciò che accade in primo piano — dicono che il contenuto del messaggio dell’angelo è già avvenuto in un “altrove” spaziale e temporale, che ora si manifesta in sogno a Giuseppe. Inoltre, mentre san Giuseppe e l’angelo sono multicolori, la Vergine è rappresentata in una tinta quasi monocroma appena striata dall’oro dello Spirito Santo, a indicare che ella non è presente se non nel messaggio dell’angelo.
La vetrata, offerta da Albina Rosina nel 1932, mantiene le caratteristiche stilistiche neorinascimentali delle altre prodotte negli anni Trenta dalla ditta bavarese Franz Mayer & Co. Una di queste caratteristiche è la cornice “a grottesche”, motivo decorativo così chiamato perché rinvenuto e copiato dagli artisti rinascimentali nelle loro esplorazioni “in grotta”, ovverosia nelle enormi dimore imperiali della Roma antica, ormai da secoli interrate e che con stupore essi riscoprivano fra XV e XVI secolo; le “candelabre”, di cui dicevamo nel commento allo “Sposalizio della Vergine” (cfr. La Santa Crociata in onore di San Giuseppe 3/2022, pag. 24), non sono altro che un particolare tipo di “grottesca” dove dominano finti candelabri.
I libri contabili della Franz Mayer & Co. ci permettono di risalire a chi nel 1932 trattò in un’unica soluzione l’acquisto di questa vetrata, come anche della precedente (lo “Sposalizio della Vergine”) e della successiva (la “Natività”). Fu l’allora direttore (1927-1932) della Primaria Pia Unione del Transito di San Giuseppe, un guanelliano originario del Cantone di Lucerna, nella Svizzera tedesca: Walter, ovvero Gualtiero Disler (1890-1938), che era entrato nella Congregazione dei Servi della carità nel 1912 e che poté agevolmente trattare con la Franz Mayer & Co., non solo perché di lingua tedesca, ma anche perché dotato di una laurea in Teologia acquisita a Roma, alla Gregoriana: due caratteristiche che sicuramente lo abilitavano a seguire con autorevolezza la questione.
Anche se non si ha documentazione al riguardo, a lui risale probabilmente anche una precedente trattativa per un’altra vetrata che ora si trova nel corridoio di accesso alla Pia Unione, forse un primo campione avente sempre come soggetto san Giuseppe che sogna e che probabilmente non risultò soddisfacente; Disler, infatti, fu direttore della Pia Unione anche in precedenza fra il 1919 e il 1925. Avendo questa vetrata le medesime dimensioni (cm 362 x 136) delle vetrate collocate lungo le navate della Basilica di S. Giuseppe, si potrebbe ipotizzare che quella fosse la destinazione pensata in origine anche per questa vetrata. Il marchio di fabbrica la dice proveniente essa pure dalla Franz Mayer & Co. di Monaco di Baviera, benché sulla cornice si legga la strana dizione francese “Baviere”. Nell’album fotografico dell’azienda, è conservato un disegno di Karl Wurm (1893-1951), che sicuramente costituì la base di questa vetrata. La data del bozzetto purtroppo non è precisabile, ma potrebbe risalire ai primi anni Venti del secolo scorso. A conferma di ciò, sta lo stile vagamente liberty di questa vetrata, diverso dalle altre vetrate neorinascimentali degli anni Trenta prodotte dalla Franz Mayer & Co. e che, sempre sulla base della documentazione conservata dall’azienda, risalgono a un altro artista monacense: Richard Holzner (1883-1958).
In questo caso il tema rappresentato non è d’immediata evidenza. Unici attori: un barbuto san Giuseppe, che s’è addormentato con la mano destra a reggere la testa reclinata in avanti, e l’angelo che, sopra di lui, con il dito indice puntato verso l’alto, gli indica in sogno qualcosa d’imprecisato. Si può immaginare che si tratti dello stesso primo sogno di san Giuseppe, e che dunque il richiamo dell’angelo sia a non temere di prendere Maria con sé. La scena, infatti, ambientata sotto un porticato che funge da laboratorio, dove san Giuseppe è contornato dagli strumenti del suo lavoro (morsetto, pialle, sega, scalpelli, lime, raspe, assi, cestino, trucioli…), ci parla di Nazareth; e di Nazareth in una situazione statica, si direbbe, perché non c’è traccia né del bambino né della Vergine né dell’eventuale viaggio per o dall’Egitto.
Dicevamo che, rispetto alla vetrata del 1932, la quale raffigura il sogno di san Giuseppe lungo la navata laterale sinistra della Basilica, in questa lo stile è diverso. La scelta di colori non tradizionali, sia per l’androgino angelo dotato di un abito dorato dall’aspetto di una vestaglia orientaleggiante, sia per san Giuseppe, rivestito con i colori normalmente usati per la Vergine e per Gesù; il tentativo di precisazione nella resa del contesto e del paesaggio; la cornice geometrizzante e non in forma di “grottesca”: sono tutti elementi che parlano di una tendenza modernizzante e fantasiosa tipica dello stile liberty.