Ingresso in diocesi di Lugano del Venerabile Aurelio Bacciarini
Il 14 febbraio 1917 il vescovo Bacciarini arriva in treno alla stazione Lugano e, a piedi, scende alla cattedrale accompagnato al suono festoso delle campane di tutte le chiesa della città. I suoi predecessori erano fregiati da titoli nobiliari, il nuovo pastore della diocesi arriva umile per i natali, umile per la vita sacerdotale trascorsa tra i poveri di don Guanella, umile nelle sue aspirazione, ma nobile nei sentimenti verso l’intero suo popolo del Ticino e, soprattutto, attento alle necessità della povertà dai mille volti. Giunto in cattedrale, nel primo saluto alla folla applaudente, il vescovo chiede il sostegno della preghiera e la collaborazione nelle opere di bene e in contraccambio dice: «In compenso io vi do me stesso, come Gesù nostro Signore - e poi con voce solenne pronuncia queste nobili espressioni -: Io depongo la mia povera vita sulle vostre teste, come sopra un altare, e intendo consumarla e immolarla al bene e alla salvezza di tutti». Questi sono i sentimenti che hanno attraversato senza stanchezza tutta la sua azione pastorale.
Aurelio Bacciarini fu «Pater pauperum»: ebbe la passione per i poveri perché era nato povero e rimase sempre povero. Così operò infaticabilmente nel campo della miseria sociale. Abbracciò la causa di don Guanella perché vide nel povero il prediletto di Dio, il componente di quella grande massa di gente minuta, spiritualmente e non soltanto materialmente povera, o per mancanza di cultura o per carente sviluppo della personalità, costretta perciò a dipendere dagli altri. Egli, molto tempo prima di Giovanni XXIII, presentava la Chiesa come doveva essere e riportava così la povertà al livello di vocazione della Chiesa; un concetto che il Concilio Vaticano II consacrava con tutto il peso della sua autorità. Aurelio Bacciarini volle essere specialmente il vescovo dei traviati. Non per nulla la sua prima visita pastorale la riservò non soltanto agli ammalati ma anche ai carcerati, preannunciando il gesto compiuto da Giovanni XXIII appena eletto pontefice. Egli diceva: «Gli aspettati sono i figli più cari, i figli prodighi sono l’ornamento più bello e le gemme più preziose della mitra vescovile». Volle anche essere sempre povero: avrebbe preferito, affermava, morire disteso sulla scala del vescovado piuttosto che cercare un centesimo per sé. Ricordava spesso una frase di don Luigi Guanella: «se voi benedite il povero e se il povero lascia cadere sul dorso della vostra mano le lacrime della sua riconoscenza non asciugate quelle lacrime, lasciatele brillare come rugiada dal cielo: sono il segno della benedizione di Dio».
La carità prima di tutto deve essere un atto di giustizia
È importante precisare che Aurelio Bacciarini non concepiva la carità come beneficenza filantropica. Le sue opere, infatti, sono un vero e proprio atto di giustizia sociale perché egli ha protetto e attuato il diritto dei piccoli, dei poveri, degli sfrattati, degli affamati, delle vittime delle calamità, supplendo largamente a quello che la società civile o i famigliari lasciavano mancare ai poveri, agli ammalati e ai vecchi.
Per tutelare gli interessi del popolo lavoratore fondò l’Organizzazione Cristiano-Sociale, divenuta il più forte movimento sindacale operaio della Svizzera italiana. Volle «Il Giornale del Popolo» per diffondere e difendere la fede. Appoggiò la Federazione cattolica dei docenti, incaricata di tutelare le esigenze religiose del programma scolastico. Promosse le associazioni della gioventù e quelle femminili e maschili - denominate poi da Pio XI Associazioni di Azione Cattolica - per sviluppare l’apostolato dei laici.
Proponeva anche un programma di vita, esortava alla temperanza: non occorreva che il mondo diventasse una clausura o si caricasse di cilici e di digiuni, ma desiderava che ritornasse alla moderazione, per esempio nel vitto, accontentandosi ognuno del nutrimento necessario, lasciando da parte tutto quello che è lusso, sarà tanto di guadagnato per la salute, per la famiglia e per la società.
Se dovessimo impoverirci diminuendo la nostro opulenza, per «far stare allegri i poveri», il problema della miseria potrebbe essere risolto. Voleva che si eliminassero le radici del flagello dell’alcolismo, nefasto per la gioventù e per la famiglia. Voleva che si arrestasse la marcia corruttrice delle produzioni immorali, capaci di scardinare i gangli della società più di una guerra. Aveva a cuore la concordia e la democrazia. Era il figlio dei monti e dei campi, come amava definirsi, e voleva impedire a tutti i costi che si abbandonasse la terra che chiamava teneramente madre.
Tutto cuore e nervi per aiutare i poveri
Fu un organizzatore nato, tutto cuore e tutto nervi, e sapeva mobilitare e coordinare le varie forze con rara perspicacia. Aveva il temperamento del costruttore ed era un sociologo sagacissimo. Quando concepiva un progetto ne vedeva delineati gli aspetti concreti. Aveva un senso pratico molto eclettico. Si sentiva a suo agio nelle discussioni con i tecnici e con gli artigiani. Fu un realizzatore prodigiosamente efficiente. Dei trenta ricoveri, ospedali, sanatori e case di salute che il Ticino possedeva alla morte di Aurelio Bacciarini, più della meta sorsero durante il suo episcopato, senza contare le opere da lui attuate come Superiore dei Servi della carità di don Luigi Guanella.
Il segreto del suo successo era l’immediato aggancio che aveva con le anime. Il dialogo gli permetteva di scavare nelle coscienze e di indovinare gli affanni. Aveva una grande capacità di introspezione come l’avevano il Curato D’Ars e don Luigi Guanella. Così Aurelio Bacciarini anticipò quella che viene chiamata la psicologia degli incontri. Se la tecnica è necessaria essa non può mai sostituire la carità. La psicologia dell’incontro cioè non può essere altro che psicologia del cuore. Il servizio sociale non si attua con il perfezionamento dei mezzi tecnici ma con i valori affettivi del cuore. È un problema di comunione umana e Aurelio Bacciarini ci aiutò a risolverlo con la Comunione dei santi.
La sofferenza non l’ha mai reso un uomo triste
Aurelio Bacciarini era gravemente ammalato, ma la sofferenza non lo trasformò mai in un uomo triste, dal temperamento pessimistico, in una specie di vittima schiacciata dalla fatalità del dolore, che diffonde ovunque vada un senso di angoscia e di desolazione; anzi, al contrario, egli andava sempre dicendo: «Via la malinconia, sia che viviamo, sia che moriamo siamo nel Signore». Nelle cliniche dove risiedeva - la sua «seconda patria», come le chiamava lui - la sua presenza era come un raggio di luce e le conversazioni con gli ammalati erano sempre pervase di gioconda letizia. Anche quando il suo volto cominciava a mostrare i segni della malattia, era sempre illuminato e diffondeva sempre una serenità che affascinava tutti. Si sarebbe addirittura potuto dubitare delle sofferenze che pativa, leggendo la sua copiosa corrispondenza con i fedeli, soffusa quasi sempre di sorridente cordialità.
Aurelio Bacciarini voleva vivere insieme con i sofferenti perché essi sono la continuazione del sacrificio di Cristo e sono per questo i suoi prediletti. Se per lui invocava le sofferenze, per l’ammalato aveva le sollecitudini e una premura teneramente materna: voleva che si facesse tutto il possibile per alleviargli il dolore e ridargli al più presto la salute.
Correva sui luoghi delle sciagure: lo si trovava sulle strade del dolore, soccorritore alacre e benedicente. Basta ricordare quello che fece nella Marsica quando nel 1915 fu sconvolta dal terremoto: salvò molti bambini orfani, attento e premuroso come una madre perché fossero cancellati nei loro cuori le angosce e i tormenti che avevano vissuti. Se il quartiere romano di San Giuseppe era una zona dove imperavano l’aberrazione e la miseria egli seppe trasformarlo in una vera e propria comunità terapeutica.
Come buon samaritano a fianco di chi soffre
Quando la carestia ci colpì nel 1917 esortò la nostra popolazione a intensificare la coltivazione della terra per sopravvivere, anticipando così l’idea geniale propugnata da Wahlen destinata ad essere attuata durante la seconda guerra mondiale. Quando nel 1918 da noi imperversò la «grippe» egli seppe organizzare un’esemplare assistenza sanitaria in ogni parrocchia, raccogliendo il plauso e il consenso anche da parte delle autorità civili. Operando in tal modo egli andava già proponendo l’immagine di una Chiesa aperta e dinamica - che fu poi quella di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano II - con la quale si poteva camminare insieme verso i traguardi della civiltà e della salvezza.
Siamo in un mondo senza amore. L’uomo non riconosce più il suo simile se non nella paura e nell’angoscia. Per questo il Vangelo è di straordinaria attualità. Per farlo capire però, e per camminare di buona voglia fra i labirinti e precipizi della vita, e arrivare lietamente a lieto fine, come diceva il Manzoni, ci vogliono gli uomini del soprannaturale come Aurelio Bacciarini. Aveva ragione Dostoevskij: i santi sono i difensori moderni dei valori della vita. Perciò Aurelio Bacciarini è un fulgido esempio di apostolo inserito pienamente nella nostra società.