Giovanni Coppa, cardinale
di Gabriele Cantaluppi
Via Pierino Belli 13, Alba, al centro della cittadina. Una corte, quelle di una volta, dove si affacciavano le abituazioni delle numerose famiglie circostanti. Un pozzo nero dove una di esse raccoglieva il frutto del suo lavoro, prima di andare poi a spargerlo nei campi. Mai Giovanni Coppa ha dimenticato questo umile luogo delle sue origini, anche quando le vie della Provvidenza lo hanno incaricato di delicate missioni ecclesiastiche, facendogli incontrare importanti personaggi di questa terra. Nella sua autobiografia, redatta poco tempo prima della sua morte, avvenuta il 16 maggio di quest’anno, più d’una volta conclude la cronaca di qualche incontro importante ricordando: «Dissi sempre a me stesso: ‘Non dimenticare da quale letamaio sei uscito, non dimenticare via Pierino Belli 13».
Una famiglia, la sua, dove era nato il 9 novembre 1925, come le tante dei nostri paesi di campagna agli inizi del secolo scorso: il papà che esercitava il commercio di prodotti per calzolai e il suo salario richiedeva sempre la saggia economia della mamma per arrivare alla fine del mese. La mamma che era la prima educatrice dei figli, a cui non faceva mancare la formazione religiosa, prima di tutto col proprio esempio. E poi la parrocchia: Coppa è esplicito nell’affermare che la sua fanciullezza e adolescenza furono guidate dall’esperienza dell’oratorio, con il catechismo tenuto dai chierici del locale seminario diocesano e con l’esperienza dell’Azione Cattolica: «L’Azione Cattolica fu la fucina del mio futuro». Un ruolo importante ebbero anche i sacerdoti: «I nostri sacerdoti avevano anticipato di tanti anni, senza saperlo, le acute osservazioni di Papa Francesco sulla pastorale del sacramento della Penitenza».
Ebbe anche l’esperienza di un ecumenismo ante litteram: il “Signor Flaminio”, un fornitore del papà, di religione ebraica, salvò la famiglia dalla bancarotta attendendo anche a lungo il pagamento delle fatture. Scrive: «Se sono diventato prete, lo devo anche all’aiuto che quel fratello ebreo diede a mio padre in difficoltà». Purtroppo anche le croci non si fecero attendere: la più grave fu la morte del fratello maggiore Gino, ventiquattrenne allievo ufficiale dell’Aeronautica, che si sfracellò al suolo per un’avaria al suo velivolo durante un’esercitazione. Fu durante i suoi studi all’Università Cattolica di Milano, dove si era iscritto ancora diacono, che a Giovanni venne la chiamata di andare a Roma, nella Cancelleria Apostolica, come “latinista”: ironicamente ricorda che alcuni anni prima aveva deciso di non seguire i corsi di latino, ritenendoli inutili per il suo futuro incarico di insegnante di lettere in seminario, e ne era stato dissuaso da amici riguardo alla loro utilità.
Ma anche da “curiale”, non dimenticò mai che «un sacerdote, pur con sacrosanti impegni ecclesiali come quelli di Curia, non è un impiegato, ma rimane sempre un consacrato a Dio e ai fratelli» e nel tempo libero si dedicava generosamente all’apostolato in parrocchie e in comunità religiose. Nelle vacanze estive approfittava, grazie anche all’aiuto di sacerdoti amici, per visitare molte nazioni europee, spingendosi anche fino alla Scandinavia e ai Paesi allora ancora sotto cortina o in procinto di diventarlo. Anni dopo, quando vi ritornerà da vescovo, ricorderà la commozione provata davanti all’entusiasmo della popolazione, che vedeva rinascere le sue tradizioni di fede dopo la persecuzione comunista. Un’esperienza che gli sarà molto utile, quando, dopo l’esperienza nella Segreteria di Stato che lo mise in stretta collaborazione con Giovanni XXIII e Paolo VI ai tempi del Concilio, verrà nominato Delegato Rappresentante Pontificie e consacrato vescovo da Giovanni Paolo II. In questa veste fu inviato in tutto il mondo in visita alle Nunziature Apostoliche e alle Sedi diplomatiche.
Non sempre il suo lavoro lo gratificò, soprattutto per quel clima “carrierista” della Curia romana, tanto stigmatizzato anche da Papa Francesco. Scrive infatti a proposito: «La Curia uccide anche col silenzio», cioè con l’indifferenza dei colleghi. Ma per lui era sempre «un servizio reso alla dimensione umana del lavoro diplomatico della Santa Sede». Con lo scoccare dell’età della pensione si ritirò in Vaticano, come canonico della basilica di San Pietro, ma ricevendo ancora alcuni incarichi come membro della Congregazione per le Cause dei Santi e Consultore della Segreteria di Stato per gli Affari Generali, e infine la nomina a Cardinale da papa Ratzinger. Papa Francesco nell’omelia dei funerali lo ha definito «stimato uomo di Chiesa, che ha testimoniato saggezza pastorale e premurosa attenzione alle necessità degli altri, andando incontro a tutti con bontà e mansuetudine».