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Medico e professore universitario, san Giuseppe Moscati irradiò la fede tra gli studenti e poveri di Napoli. Sintesi mirabile di competenza scientifica ed eroica carità cristiana

di Corrado Vari

«Fu la più perfetta incarnazione che io abbia mai conosciuto della carità di cui parla san Paolo nella lettera ai Corinzi». Così un testimone descrive Giuseppe Moscati, il santo medico napoletano beatificato da Paolo VI nell’anno giubilare 1975 e canonizzato da Giovanni Paolo II nel 1987, al termine del Sinodo dei Vescovi sui laici, che lo indicava come magnifico esempio dell’universale chiamata alla santità, rivolta a tutti i cristiani nella condizione di vita propria di ciascuno. 

Nacque il 25 luglio 1880 a Benevento, settimo di nove figli, in una famiglia di nobili origini e dalla solida fede cattolica. Il padre Francesco, magistrato, quando “Peppino” aveva solo quattro anni, fu trasferito a Napoli; in questa città Giuseppe visse con la sua famiglia fino al 12 aprile 1927, quando morì improvvisamente, sulla poltrona del suo studio, a 47 anni non ancora compiuti.

Frequentò gli studi liceali, poi si iscrisse alla Facoltà di Medicina della città partenopea, assai prestigiosa ma impregnata dell’ideologia positivista e massonica ostile alla Chiesa, un ambiente ben diverso da quello in cui si era formato. Si laureò con il massimo dei voti il 4 agosto 1903 e fin dai primi anni di attività manifestò tutte le qualità per cui divenne noto ben oltre i confini della sua città.

Non è possibile in questo breve spazio illustrare gli incarichi ricoperti da Moscati, le sue pubblicazioni scientifiche, le sue attitudini di formatore di medici, le sue eccezionali capacità diagnostiche in un’epoca in cui la medicina aveva pochi degli strumenti di indagine oggi disponibili. Coadiutore e poi primario ospedaliero, assistente e poi docente universitario, ricercatore e direttore di istituto, rinunciò ad una carriera ancora più prestigiosa per non lasciare il lavoro in ospedale e l’assistenza medica alle tante persone, spesso povere, che affollavano il suo studio presso l’abitazione di famiglia, in cui viveva con la sorella Anna – sua prima collaboratrice e sostenitrice – o presso le quali correva quando c’era bisogno del suo intervento.

Fu quasi sovrumana la dedizione con cui svolse quello che per lui non era soltanto una professione, ma una autentica e totale vocazione, per la quale rinunciò anche a crearsi una propria famiglia. Nell’omelia per la beatificazione, san Paolo VI spiegava che la sua esistenza trascorse tutta «nel solo desiderio di compiere il proprio dovere e di rispondere fedelissimamente alla propria chiamata»: con questa condotta di vita Giuseppe Moscati imitò perfettamente il santo Patriarca di cui portava il nome e al quale si affidava con fiduciosa devozione.

Pienamente laico e integralmente cristiano, Giuseppe era convinto dell’importanza del progresso scientifico e animato da fede semplice e profonda: non li viveva in opposizione l’uno all’altra, ma li sentiva entrambi necessari per una visione unitaria della persona umana, in cui la salute del corpo è inseparabile da quella dell’anima. Così scriveva ad un suo allievo: «Non solo del corpo vi dovete preoccupare, ma delle anime gementi che ricorrono a voi. Quanti dolori voi lenirete più facilmente con il consiglio e ricorrendo allo spirito, anziché con le fredde prescrizioni da inviare al farmacista».

Sono numerose le testimonianze su Moscati «medico dei corpi e delle anime», come lo definì Bartolo Longo, il santo fondatore del Santuario di Pompei, che lo ebbe come amico e medico personale. Non di rado il suo servizio ai malati andava ben oltre il suo dovere, attraverso gesti di carità materiale e spirituale; per cui capitava che le sue prescrizioni (da molti conservate come reliquie) venissero accompagnate da una banconota per fare la spesa o dall’indirizzo di un sacerdote da cui confessarsi. 

In diverse occasioni, chiamato al letto di malati lontani dalla Chiesa o ad essa addirittura osti-
li – illustri o sconosciuti  Moscati li indusse ad aprirsi all’azione della Grazia. L’episodio più noto è forse quello del grande tenore Enrico Caruso, che si rivolse a lui quando era ormai troppo tardi. Il professore gli fece notare che aveva consultato tutti i medici ma non il Medico divino, Gesù Cristo. «Professore, fate quello che volete», rispose l’artista a
Giuseppe, che lo assisté amore-
volmente fino alla fine, dopo aver-
gli fatto impartire i Sacramenti.

Curare i corpi per salvare le anime: questa fu la vocazione di Moscati, per il quale la missione di tutti gli operatori sanitari è quella di «collaborare all’infinita misericordia di Dio». Per questa sua visione autenticamente umana e cristiana fu osteggiato e anche odiato dagli ambienti medici massonici e materialisti, invidiosi delle sue doti professionali e infastiditi dalla sua limpida fede; ma egli reagiva dicendo: «Che cosa m’importa degli altri? Il mio pensiero è contentare Dio».

E a chi gli chiedeva come potesse reggere gli estenuanti ritmi di lavoro delle sue giornate, rispondeva semplicemente: «Chi fa la Comunione tutte le mattine ha con sé un’energia che non viene mai meno». Chiunque incontrasse il professor Moscati si accorgeva che le sue qualità non erano soltanto doti naturali o frutto del suo impegno, ma avevano un’origine più profonda. Disse di lui un altro celebre medico, non credente: «Era una delle creature più care, che amava vivere nel colloquio continuo con Cristo, che forza i sepolcri e vince la morte».

Per scrutare quel suo «colloquio continuo» di cui parlava il collega, sono d’aiuto le poche, essenziali parole che egli stesso aveva frettolosamente scritto su un biglietto, trovato dalla sorella nella carta straccia: «Mio Gesù amore! Il vostro amore mi rende sublime; il vostro amore mi santifica, mi volge non verso una sola creatura, ma a tutte le creature, all’infinita bellezza di tutti gli esseri, creati a vostra immagine e somiglianza».