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San Giuseppe Cafasso si dedicò con virtù straordinaria a un apostolato ordinario. Formatore di sacerdoti, consolatore di ammalati, “prete della forca” perché assisteva i condannati a morte

di Corrado Vari

Il 23 giugno la Chiesa celebra la memoria di san Giuseppe Cafasso (1811-1860). Ancora una volta parliamo di un sacerdote piemontese, appartenente alla straordinaria fioritura di santità che segnò il XIX secolo in quella regione.

«Modello e maestro del clero, padre dei poveri, consigliere dei dubbiosi, consolatore degli infermi, conforto degli agonizzanti, sollievo dei carcerati, salute dei condannati al patibolo». Con queste parole don Bosco descriveva il suo grande amico don Cafasso: erano poste su un’iscrizione che fece esporre dopo la morte di quello che era stato suo direttore spirituale per venticinque anni, nonché ispiratore e benefattore delle opere da lui fondate. A ragione è stato scritto che senza il Cafasso non avremmo avuto don Bosco e probabilmente neppure la Congregazione Salesiana.

Giuseppe Cafasso nacque il 15 gennaio 1811 a Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo don Bosco), quattro anni prima del fondatore dei Salesiani, in una famiglia contadina dalla solida fede. Sua sorella minore Marianna fu la madre del beato Giuseppe Allamano, fondatore dei Missionari della Consolata e promotore della causa di beatificazione dello zio sacerdote. 

Fin da bambino egli si sentì chiamato a consacrarsi al Signore. Dopo aver frequentato le scuole pubbliche, compì a Chieri tutto il percorso di studi che lo avrebbero portato all’ordinazione sacerdotale nel 1833. Nel 1834 entrò come studente nel Convitto ecclesiastico San Francesco d’Assisi, fondato a Torino dal teologo Luigi Guala (1775-1848), che in seguito lo chiamò a essere prima assistente poi docente di teologia morale. Alla morte del Guala divenne anche rettore del Convitto e vi restò per tutta la vita.

Come ricorda la Bibliotheca Sanctorum (VI, col. 1318), egli «non ebbe programmi specifici di spiritualità e di apostolato, se non quelli comuni al clero diocesano; non lasciò istituzioni né fondò congregazioni; non scrisse trattati di scuola né opere ascetiche, ma visse in modo straordinario l’ordinario ritmo della missione sacerdotale».

Piccolo di statura, gracile e con la schiena ricurva: anche il contrasto tra l’aspetto fisico e l’opera di don Cafasso sembra fatto per mostrare che egli fu un umile strumento nelle mani di Dio, e nient’altro. «Non è necessario – scriveva – che il sacerdote faccia nel suo stato opere grandi e strepitose per essere un vero e santo ministro evangelico: le opere grandi sono poche, e pochi sono chiamati a farle, ed è alle volte una grande e funesta illusione voler tendere a cose grandi e frattanto si trascurano le comuni, le ordinarie. [...] Opere adunque di zelo, di gloria di Dio e della salute delle anime, ma opere comuni, ordinarie; dico comuni non già che siano tali per loro natura, giacché la minima cosa divien massima quando sia diretta a quel fine, ma le chiamo comuni per intendere quelle che giornalmente sono alla mano».

Egli offrì allora tutta la sua vita, straordinaria nell’ordinario, consumandosi per formare sacerdoti santi, per assistere i poveri e per consolare i sofferenti, vivendo tra digiuni, penitenze e mortificazioni. A chi osservava quanto dure e faticose fossero le sue giornate, egli rispondeva: «Il nostro riposo sarà in Paradiso. O Paradiso, chiunque pensa a te non soffrirà alcuna stanchezza!»; a chi gli diceva che la porta del Paradiso è stretta, rispondeva: «Ebbene passeremo uno alla volta». In ogni istante egli fu animato dal desiderio del Paradiso, per sé e per tutti quelli che incontrava, in particolare nella confessione, al letto dei malati e nelle disumane carceri di Torino, dove quasi ogni giorno si recava per confortare spiritualmente e materialmente i reclusi.

È bello soffermarci proprio su questo aspetto della sua missione, che lo avvicina a san Giuseppe conforto dei sofferenti e dei moribondi. Il Cafasso fu infatti un angelo della misericordia divina non solo per chi è vicino al termine della vita per malattia o vecchiaia, ma anche e soprattutto per chi sta per essere messo a morte dalla mano della giustizia umana. “Prete della forca” era il più noto dei suoi appellativi: infatti furono decine i condannati alla pena capitale che accompagnò fino al patibolo ottenendone la conversione e facendo di ciascuno un novello buon ladrone. Li chiamava «i miei santi impiccati» e spesso era così certo della loro salvezza che si raccomandava a loro affinché, giunti in Paradiso, chiedessero alla Madonna di preparare un posto anche per lui.

Diceva ancora don Bosco: «Se il Paradiso venisse a raccontarci la vita pubblica di don Cafasso, sarebbero, io credo, a migliaia, a migliaia le anime che ad alta voce direbbero: Se noi siamo salvi, se noi godiamo la gloria del cielo, ne siamo debitori alla carità, allo zelo, alle fatiche di don Cafasso. Egli ci scampò dai pericoli, ci guidò per la via della virtù; egli ci tolse dall’orlo dell’Inferno, egli ci mandò al Paradiso».

Dopo aver seguito fino all’ultimo le orme di San Paolo, facendosi «tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1Cor 9, 22), volò al cielo il 23 giugno 1860, a meno di cinquant’anni. Non gli mancò il conforto divino in punto di morte, a lui che per tanti ne era stato umile strumento. Come disse uno dei testimoni dei suoi ultimi giorni, «don Cafasso è in diretta comunicazione con Dio, egli si trattiene in familiari colloqui con la Madre del Salvatore, col suo angelo custode e con san Giuseppe».

 Fu beatificato nel 1925 dal papa Pio XI – che lo definì “la perla del clero italiano” – e canonizzato nel 1947 da Pio XII, che l’anno successivo lo proclamò patrono delle carceri italiane. 

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