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Salvo d'Acquisto

di Gabriele Cantaluppi

Per il vicebrigadiere Salvo d’Acquisto la sveglia era suonata presto quel venerdì 23 settembre 1943:  si era recato in chiesa e si era confessato per poter ricevere la Comunione. Non era il primo venerdì del mese, alla cui pratica era abituato. Forse una premonizione dello Spirito Santo? Poco tempo prima, ad una conoscente che gli aveva accluso in una lettera l’immagine del Sacro Cuore, aveva risposto: «Non potevi farmi un regalo più bello e gradito. Da tanto tempo desideravo un’immagine così». 

E in una lettera alla madre aveva scritto: «Bisogna rassegnarsi ai voleri di Dio  a prezzo di qualsiasi dolore e di qualsiasi sacrificio».

Era intento alle occupazioni di routine, lui ventitreenne  momentaneamente responsabile della stazione dei carabinieri di Torrimpietra, un borgo a pochi chilometri da Roma, in assenza del maresciallo comandante, quando una chiamata dal cortile della caserma gli fece sospendere il lavoro per scendere così com’era in maniche di camicia, senza neppure indossare la divisa completa. Gli si pararono davanti due militari tedeschi e, sferrandogli un colpo in faccia con il calcio del fucile, gli intimarono di alzare le braccia.  Cos’era successo?

Poco distante, al “torraccio”, una torre quadrata in riva al mare, nella frazione di Palidoro, il giorno prima alcuni soldati tedeschi erano stati  investiti da un’esplosione, mente ispezionavano una cassetta di munizioni. L’incidente fu dovuto all’imperizia nel maneggio degli ordigni: due furono uccisi e due rimasero feriti. Il Comando tedesco lo ritenne invece opera di anonimi attentatori locali e implicò nelle indagini i carabinieri della locale stazione.

Salvo, assunte le dovute informazioni, cercò inutilmente di convincere dell’incidente le SS, che  nella mattinata stessa rastrellarono ventidue persone, scelte a caso fra gli abitanti della zona: giovani, donne, padri e madri di famiglia.

In ogni modo Salvo cercò ancora di esporre le ragioni della loro innocenza, ma, per  tutta risposta, racconta una  testimone oculare, «fu malmenato e a volte anche bastonato dai suoi guardiani, serbando sempre un contegno calmo e dignitoso».

Fu tutto inutile: a ciascuno venne consegnata una vanga  e, trasferiti fuori paese nella vicinanza della Torre di Palidoro, furono intimati di scavare una grande fossa comune.

L’avvicinarsi della sera rendeva sempre più deboli le speranze  di salvezza. Racconta uno dei superstiti: «Alla mia domanda: “Ma allora ci uccideranno tutti?”. Vidi il Vicebrigadiere smettere di scavare ed ergersi in piedi. Poi con volto serio si avviò e chiese di parlare con il Comandante. L’interprete lo accompagnò e tra il Sottufficiale e il Comandante tedesco si svolse un colloquio di qualche minuto». Ritornato tra la gente appariva molto serio e sereno. A tutti venne spontaneo chiedere: “E allora?”. La sua risposta fu rassicurante: “Non temete: non vi faranno nulla. Io ho fatto il mio dovere. Ho detto che sono io il responsabile”».

Invitati poco dopo ad uscire dalla fossa comune tutti si affrettarono: dentro rimasero il d’Acquisto e il più giovane degli ostaggi, Angelo Amodio, che, dopo un’ulteriore dose di percosse, venne rilsciato anche lui.

Testimonia ancora uno di loro: «Mentre mi allontanavo mi sono voltato a guardare dentro la fossa:  il Vicebrigadiere ci guardava sereno, quasi sorridente».

Amodio, deceduto nel gennaio del 2008, ricordava ancora: «Mi ero allontanato di corsa incredulo, quando fui bloccato da una scarica di mitra. Mi girai, pensando che mi sparassero dietro, ed invece vidi il nostro Vicebrigadiere leggermente piegato su se stesso con la camicia che si andava arrossando. Lo sentii gridare: “Viva l’Italia”. Poi un’altra scarica e lo vidi cadere giù. Quindi  i tedeschi scalciarono della sabbia dentro la fossa e se ne andarono».  

Alcune settimane dopo alcune donne trovarono il suo corpo ancora in parte insepolto e si rivolsero al parroco per una degna sepoltura. Costui però, impaurito, si rifiutò. Furono loro stesse allora a seppellirlo nel cimitero. In seguito fu trasferito a Napoli dove ancor oggi si trova nella basilica di Santa Chiara.

La perizia medica della ricognizione della salma, avvenuta nel 1987 in vista dell’introduzione della causa di canonizzazione, confermò la dinamica dei fatti dell’uccisione.

Le stesse SS il giorno dopo riferirono ad altre persone: «Il vostro Brigadiere è morto da eroe. Impassibile anche di fronte alla morte». Aveva detto: «Se muoio per altri cento, rinasco altre cento volte: Dio è  con me e io non ho paura».

Proveniva dal Vomero di Napoli, dove era nato il 17 ottobre del 1920, e dove, in una famiglia composta di cinque figli e dai genitori, aveva assorbito gli ideali di rettitudine e di religiosità, allenandosi anche al sacrificio a causa la situazione economica familiare non proprio agiata.

Ragazzo riservato e serio, conquistò subito la simpatia dei suoi compagni della scuola salesiana e del liceo Vico che frequentava nel suo quartiere: sapeva prendere le difese di quanti erano vittime di soprusi, usando anche mezzi forti. 

Pur essendo intelligente, non risultò mai il primo della classe, forse proprio a causa della sua timidezza. Si arruolò a diciannove anni nell’arma dei carabinieri, frequentando la Scuola Allievi e partendo volontario per la Libia. Ferito ad una gamba e successivamente colpito dalla febbre malarica, rientrò in Italia dove ottenne il titolo di sottufficiale, frequentando l’apposita scuola dell’Arma a Firenze.

Il denaro che guadagnava lo divideva fra l’aiuto alla famiglia, a cui fu sempre attaccatissimo, e le spese per i libri: ne fanno fede anche alcune sue lettere dove dà disposizioni su come soddisfare le esigenze dei suoi cari. 

Nel suo impegno a progredire e ad affermarsi nella vita, non contava solo sulla sua buona volontà, ma riteneva necessario l’aiuto di Dio e della sua Provvidenza, meritandoselo con una vita di fede, di speranza e di amore anche verso il prossimo. Appaiono frequenti nelle sue lettere  espressioni «con l’aiuto di Dio, se Dio vuole, ringrazio Dio, speriamo nel Signore…».

«La storia dell’Arma dei Carabinieri – affermò Giovanni Paolo II in un discorso – dimostra che si può raggiungere la vetta della santità nell’adempimento fedele e generoso dei doveri del proprio stato. Penso, qui, al vostro collega Salvo D’Acquisto…». 

Cristo, che al mattino si era donato a lui nell’Eucaristia lo spingeva al contraccambio la sera stessa facendogli risuonare nel cuore l’ invito: «non c’è amore più grande che dare la vita per chi si ama». La forte educazione cristiana ricevuta in famiglia e nella scuola gli ha fatto cogliere l’essenziale del Vangelo che non è declamazione di parole, ma testimonianza di vita.

La Medaglia d’Oro al Valor Militare concessagli nel 1945 attende la controparte della Chiesa con la beatificazione: nel 1983 è iniziato l’iter canonico presso l’Ordinariato Militare e nel 1991 gli atti sono stati trasmetti alla Congregazione delle  Cause dei Santi.