Michelangelo
di Mario Sgarbossa
Michelangelo fu uomo di corte, al pari di Raffaello e di tutti gli artisti che apparvero nel firmamento italiano in quella felice epoca che ha nome Rinascimento. I papi del Cinquecento sembrano assai più preoccupati della cose “mondane” che dei problemi dello spirito. La sola eccezione è rappresentata dal Papa olandese Adriano VI, il cui pontificato si è concluso nel giro di un anno, con grande sollievo di molti artisti di quel tempo e dello stesso Michelangelo, se è vero quello che scrive il Vasari: Papa Adriano «già aveva cominciato a ragionare di voler gettare per terra la cappella del divino Michelangelo, dicendo ch’ell’era una stufa d’ignudi; e sprezzando tutte le buone pitture e statue, le chiamava lascivie del mondo e cose obbrobriose e abominevoli».
Il Papa Adriano VI, definito iconoclasta dai liberi spiriti del Rinascimento, aveva comunque l’intenzione di cancellare agli occhi dei seguaci di Lutero lo scandalo del fasto paganeggiante delle ricche dimore della curia romana, che in quell’anno di grazia, 1522, voleva riformare dando la caccia ai prelati dalla condotta assai poco esemplare in fatto di moralità, leggasi concubinari. Tutto preso da questo impegno lasciò in un secondo tempo il progetto di riportare il cielo stellato sulla volta della Sistina (prima dell’intervento di Michelangelo la Cappella Sistina era decorata col motivo medievale del cielo trapunto di stelle gialle). Ma il Papa morì il 14 settembre 1523 e al vecchio inquisitore di Utrecht subentrò Giulio de’ Medici, cioè quel Clemente VII in tutto degno del predecessore Leone X, l’altro fiorentino mecenate d’artisti.
Michelangelo fu ritenuto uomo di corte perché svolse la sua attività al servizio di principi e papi, determinata quindi dalle intenzioni di questi. Se dal loro mecenatismo ebbe grandi mezzi materiali (spesso Michelangelo si lamenta di non aver quattrini, ma è vero il contrario, perché guadagnò moltissimo), ebbe anche molte amarezze, perché dovette accettare il contatto con un ambiente che offendeva i suoi scrupoli religiosi. Il miracolo della sua arte sta appunto nella sua dirittura morale, e per comprenderne il profondo significato basta un confronto con le opere del suo grande avversario, Raffaello.
Michelangelo vive modestamente, si accontenta di poco ed è perfino trascurato nel vestire. La sua casa romana è da lui stesso così descritta, in versi e accenti volutamente esagerati e grotteschi: parla di oscura tomba, di ragni che s’affaticano in mille loro tele, di mucchi di escrementi davanti all’uscio, di orina di cui grondano i muri esterni, di carogne di gatti e vasi da notte lasciati lì dai vicini di casa. E conclude: «L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui / di tant’opinion, mi rec’a questo, / povero, vecchio e servo in forz’altrui». Come dire: ecco dov’è finito un uomo che molti ritengono grande artista!
Michelangelo, – al contrario di Raffaello che rinuncia a intervenire nell’esecuzione dei suoi cartoni affidandoli a bravi allievi, – è un isolato, un solitario, che lavora «in grande afano e chon grandissima fatica di corpo». Nell’estate del 1509 aveva iniziato a dipingere la volta della cappella, ma fu preso dalla disperazione: il fisico deformato dallo sforzo di lavorare in quella scomoda posizione e gli occhi bruciati dalle gocce di colore che gli colavano in faccia, rendevano assai dura la prova e fu sul punto di abbandonare l’impresa.
Tuttavia pare che le difficoltà le andasse a cercare, scontentando un po’ tutti, compreso il Papa mediceo, attento a non essere gabbato nella scelta dei veri. «Vedi d’intendere di qualche cittadino bisognoso che abbia fanciulle o da maritare o da mettere in munistero, e dàgliene, ma secretamente, e abi cura di non essere gabbato, e fàttene far ricievuta e màndamela». Non è dunque un avaro, anche se gran parte delle sue lettere trattano questioni di denaro. Ma sa amministrare bene la sua carità e abbiamo ragione di crederlo, perché egli stesso ce lo dice in una lettera al nipote Lionardo: «Guarda di dare dove è il bisognio e non per amicizia né per parentado, ma per l’amore di Dio, e fa d’averne ricievuta e non dir donde si venghino».
Michelangelo sceglie con cura e discrezione i destinatari della sua generosità: fanciulle in gravi difficoltà, poveri disoccupati che per dignità non tendono la mano. Se poi si tratta di adempiere un voto, come ad esempio un viaggio al santuario di Loreto, è meglio una lunga sgambettata e non farsi commutare il viaggio con una offerta, «perché – egli scrive – portar denaro a’ preti, Dio sa quel che ne fanno».
Altri tempi... In un’altra lettera si lamenta di “non poter urinare” e dice di essere affetto dal “mal della pietra”, un calcolo renale che lo affligge negli anni in cui sta affrescando la Cappella Sistina, e a maggio sospende i lavori per recarsi ai bagni di Viterbo. Intanto i parenti fiorentini, oltre ad assillarlo con richieste di denaro, gli scrivono per metterlo al corrente dei propri guai personali: «La Francesca mi scrive che non è ben sana e che à quattro figliuoli e che è in molti afanni, ma io non credo che gli manchi niente. Circa gli afanni, io credo averne molti più di lei e òvi aggiunto la vechiezza e non è tempo da intrattenere parenti...». Ognuno ha i propri affanni, vale a dire mal comune mezzo gaudio, come si legge in una lettera successiva: «Però di’ alla Francesca che ne facci orazione e digli che se la sapessi com’io sono stato, che la vedrebbe non esser senza compagni nella miseria».
Sulla presunta avarizia di Michelangelo non ci sono prove, semmai per il contrario: egli conosce il valore del denaro e la fatica per guadagnarlo, e non vuole buttarlo al vento. Quando invia una grossa somma al padre Ludovico, gli raccomanda di investirla in beni stabili, o comunque di dormire con gli occhi aperti per non farsela rubare. è spesso preoccupato di non perderci o di essere giuntato cioè truffato. Se si lamenta di aver pochi quattrini lo dice perché ha in mente uno scopo ben preciso: ricostituire la fortuna della famiglia.