Una vasta catacomba diventa santuario dei martiri
Marcellino e Pietro per iniziativa dell’imperatore
Costantino. Papa Damaso ne rende noto il supplizio,
tenuto segreto dai persecutori
di Talia Casu
Al terzo miglio della via Labicana (l’odierna via Casilina) si estendeva una località denominata Ad duas lauros (Ai due allori) e vi si trovava un possedimento imperiale, nel quale già in età tardo-repubblicana si era sviluppata una vasta necropoli. A partire dal II secolo circa, si aggiunse l’area di sepoltura degli Equites Singulares, il corpo di cavalieri fedele a Massenzio che Costantino soppresse dopo la vittoria su quest’ultimo; ne distrusse anche la caserma situata presso il Laterano, sulla quale fece erigere la Basilica del Salvatore (San Giovanni in Laterano).
Ad duas lauros è detta la catacomba dedicata ai martiri Marcellino e Pietro dopo la loro deposizione nel complesso cimiteriale, come ricorda il Martirologio Geronimiano: «Sepolti inter duas lauros e la cui memoria si celebra il 2 giugno». Le notizie giunte fino a noi circa il loro martirio provengono da papa Damaso e consentono di collocare la loro morte durante la persecuzione di Diocleziano, nel 304. Secondo la tradizione, i due martiri vennero uccisi in una zona chiamata Selva Nera (dopo il martirio: Selva Candida) con l’ordine di nasconderne i corpi. Lucilla, una devota matrona, li trovò e provvide a dare loro sepoltura deponendoli in una tomba di sua proprietà.
La catacomba Ad duas lauros è così citata per la prima volta nel Liber Pontificalis e la sua origine è assegnata agli anni 260-270, creata a partire da quattro aree cimiteriali differenti, ognuna con scala propria.
La sua formazione è preceduta da una ricca rete di gallerie di natura idraulica, da alcuni resti di edifici relativi all’area funeraria e da altre strutture associate probabilmente allo sfruttamento agricolo. Al principio del IV secolo i nuclei originari vennero ampliati e nel 320 venne completata la basilica circiforme (con deambulatorio dietro l’abside), fatta erigere da Costantino insieme al mausoleo, in seguito destinato alla madre Elena.
I corpi dei martiri Marcellino e Pietro vennero deposti in due loculi nell’area della catacomba detta Regione X, che si sviluppa nei preesistenti cunicoli idraulici ormai in disuso. Verso il 330-340 il loro cubicolo venne unito ad uno adiacente, creando così un unico ambiente con due accessi, che venne fornito di pilastri per sostenere gli archi e decorato con intonaco bianco. A partire poi dal 360 divenne un santuario a tutti gli effetti, collegato al resto del cimitero. Papa Damaso (366-384) provvide a monumentalizzare sia l’ingresso situato ad est che le due venerate tombe, accostando loro una mensa-altare e sovrapponendo un epistilio (architrave) sul quale pose il carme da lui composto in onore dei due martiri (box). Inoltre fece costruire una scala che dal lato nord del sopratterra permetteva l’accesso diretto al santuario.
Gli affreschi che decorano i cubicoli delle catacombe riproducono le scene dell’Antico e del Nuovo Testamento che privilegiano il tema della salvezza eterna, tra le quali emerge la raffigurazione dell’episodio del colloquio di Gesù con la Samaritana al pozzo (Gv 4, 4-42). Ma sono presenti ancora segni neutrali e addirittura scene che derivano dal mondo profano pagano, quindi legati alla tradizione classica, accostati a episodi biblici, come nella decorazione pittorica della volta del cubicolo “delle Stagioni”: nei quattro angoli sono affrescate le personificazioni delle quattro stagioni; quattro riquadri riproducono le scene del ciclo del profeta Giona, alternate da quattro oranti, che possiamo identificare come i defunti proprietari del cubicolo; al centro campeggia l’immagine del Buon Pastore. Leggendo nel suo complesso l’intera composizione pittorica, si potrebbe cogliere l’intenzione di esprimere, attraverso il richiamo alla rigenerazione espressa dalle figure stagionali, la fede nella Risurrezione professata dai defunti.
Altro cubicolo singolare è quello di Orfeo, mitico cantore e poeta originario della Tracia, che con la sua arte attrae gli animali, eletto a simbolo della paradisiaca armonia tra l’uomo e il creato. Il Cristo Logos è il vero Orfeo, che «tra tutti gli uomini di tutti i tempi» è l’unico, con il suo «canto nuovo» capace di addomesticare «le fiere più selvatiche di tutte, cioè gli uomini...», e quindi di trasformare «in uomini mansueti tutte queste ferocissime fiere» fino a rendere una vita nuova a «quelli che erano morti» (Clemente Alessandrino, Protrettico). È infatti probabile che il racconto mitico di Orfeo, che si reca nell’Ade con lo scopo di far uscire Euridice sua sposa, fosse facilmente accostabile alla discesa di Cristo negli inferi per trarne Adamo e tutti i giusti. Orfeo nell’immaginario iconografico delle origini diventerà simbolo cristologico: il Cristo-Orfeo che «con la lira della sua croce, i meriti della sua Passione e il canto della sua divina Parola, ha mutato i cuori ferini degli uomini, rendendoli mansueti e docili», scriverà Antonio Bosio (1575-1629), grande storico e archeologo, accostando le immagini dell’Orfeo alle fonti patristiche. Il medesimo sguardo avuto dal Bosio deve caratterizzare chi si recherà alle catacombe, pellegrino alla ricerca delle radici della fede.