Gesù ha imparato a vivere guardando Giuseppe. Il carattere umano di Cristo porta la impronta del suo custode
di don Luigi Guglielmoni e Fausto Negri
Papa Francesco nell’omelia della santa Messa di inizio pontificato ha detto: «Il prendersi cura, il custodire richiede bontà, richiede di essere vissuto con tenerezza. Nei Vangeli san Giuseppe appare come un uomo forte, coraggioso, lavoratore, ma nel suo animo emerge una grande tenerezza che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza» (19 marzo 2013).
Il Papa sapientemente associa tenerezza con fortezza, mai da disgiungere tra loro. Compito arduo e non affatto spontaneo, che richiede un grande lavoro su se stessi, un decidersi per l’altro, un amare l’altro nella sua unicità, senza la pretesa di renderlo a “nostra immagine e somiglianza”. Amare richiede libertà interiore e rende veramente liberi. San Giuseppe in questo è inarrivabile.
Per amare ed educare, ogni padre non può limitarsi ad esercitare unicamente la fermezza: rischia di diventare acido, scostante, temuto più che cercato, amato e imitato! Non si genera la vita per avere qualcuno cui comandare. Eppure, è più facile comandare che dialogare, svalutare più che ascoltare. Invece il figlio impara a parlare se gli parliamo, ad ascoltare se lo ascoltiamo, ad amare se lo amiamo, ad avere fiducia se gli diamo fiducia, a credere in Dio se gli testimoniamo la nostra fede...
D’altra parte non basta la sola tenerezza, che rischia di ridursi a tenerume, sinonimo di mollezza, insignificanza, carenza di stimoli, mediocrità. Dire al figlio: «Fa’ come ti pare» significa diseducare. Non è nemmeno corretto il dare “tutto, sempre e subito”, senza mai faticare, pazientare, conquistare gradualmente. San Giuseppe non ha tolto tutti gli ostacoli davanti a Gesù; egli sa per esperienza personale che il sacrificio è un ingrediente indispensabile per la crescita. Gesù lo ha mostrato nella sua passione e croce.
Padri, non “compagni”
L’incontro con il padre è indispensabile per tagliare il cordone ombelicale dei figli. Giuseppe condivide la vita con Gesù, lo accompagna nella crescita, lo difende da Erode, gli insegna a provvedere alle varie situazioni della vita, lo inserisce nelle tradizioni del popolo di Israele, gli mostra il sudore del lavoro quotidiano, lo educa all’osservanza della Legge.
Non solo. Missione dei genitori, come pure di tutti gli educatori, è anche quella di diventare “inutili”, di sapersi ritirare, di restare presenti come “memoria”: è ciò che fa Giuseppe che, ad un certo punto, sparisce dalla cronaca evangelica. Il servizio paterno è veramente tale quando è semina, testimonianza: non invece quando occupa sempre il centro dell’attenzione e della scena.
In sintesi, un amore di tenerezza richiede tanta forza e un amore forte esige tanta tenerezza. La tenerezza non rappresenta un optional, ma una vocazione profonda che umanizza la persona e la rende amabile, capace di ascolto, di accettazione, di giusta stima e tolleranza. Sicuramente Giuseppe è stato un grande punto di riferimento per Gesù. Questi ha imparato a vivere da chi ha visto vivere. Vista la personalità d’alto fusto di Cristo, forte ed amabile, Giuseppe gli ha sicuramente trasmesso alti valori. Senza valori l’educazione svanisce, non prepara alla vita, è solo “allevamento”.
Papa Francesco non teme di dare un chiaro suggerimento circa il ruolo educativo dei papà: «È vero che devi essere “compagno” di tuo figlio, ma senza dimenticare che sei padre! Comportarsi soltanto come un amico alla pari del figlio non farà bene al ragazzo!» (28 gennaio 2015).
Padri capaci di tenerezza
Tenerezza è accettare l’altro fino in fondo. Tenerezza è chiedere il meglio, incoraggiando il figlio, facendolo sentire importante, senza però sostituirsi a lui. Giuseppe, uomo dei sogni, non ha sicuramente calpestato i sogni di suo figlio.
Che emozione deve aver provato quando per la prima volta si è sentito chiamare “abbà”, nome che dignifica “papà”, “babbo mio”: un nome carico di affetto e di riconoscenza. Solo chi ha provato nella sua esistenza tali sentimenti può riconoscerli negli altri. Il Papa afferma che «solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore (Ap 12, 10)». Sicuramente Giuseppe ha sempre guardato Gesù ponendo in lui “il suo compiacimento”, facendolo sentire “l’amato”. L’essenziale, nel rapporto genitori-figli è lo sguardo d’amore. Nessuno ha fondamento in se stesso, ma viene definito da ciò che riceve: è il legame di riconoscimento. Il bambino risponde a come viene accolto sin dalla nascita..
Tenerezza, infine, può anche consistere nell’ammettere di essere teneri, cioè deboli, limitati. I genitori sono sempre “imperfetti”: devono saper ammettere, qualche volta, di aver sbagliato, di non sapere tutto, di non riuscire a fare tutto: si insegna anche chiedendo scusa e domandando aiuto ad altri. Siamo esseri umani, non dèi!
Nel tempo della pandemia, un nemico piccolo e invisibile ci ha imposto sacrifici e rinunce; ci ha chiesto di fermarci, di restare in casa, di scansare gli altri evitando i contatti. Col divieto di darsi baci, carezze, abbracci e persino la mano, ha creato in tutti noi il timore, ma anche una grande nostalgia di contatti umani. Ha ragione Papa Francesco: non dobbiamo avere paura della tenerezza, che vince l’isolamento!